Operazione Colomba – il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII – ha una presenza attiva in Libano dal 2013 all’interno dei campi profughi siriani di Bebnine e di Telabbas, che si trovano nel distretto di Akkar, la zona nord-occidentale del Libano al confine con la Siria. Parimenti a quanto accade nelle altre zone d’intervento di Operazione Colomba (Palestina/Israele, Colombia, Albania) i volontari praticano la condivisione della vita con le vittime del conflitto, dando conforto e aiuto nel soddisfacimento dei bisogni più immediati, così come nell’affrontare le situazioni di emergenza; la protezione non armata di civili esposti alle violenze della guerra, onde fungere da deterrente verso l’uso della violenza; promuovono il dialogo e la riconciliazione, traendo ispirazione dai principi della nonviolenza, della equivicinanza, e della partecipazione popolare; portano avanti un continuo e paziente lavoro di advocacy a livello politico e istituzionale.
La situazione dei profughi siriani è drammatica, anzi, di più: è tragica. A causa della guerra che sta devastando la Siria, circa sette milioni di persone sono state costrette a un esodo di massa, a un esilio volontario per non finire nelle mani dell’esercito di Bashar al-Assad, il dittatore alauita che si proclama paladino di democrazia. Due milioni di profughi (molti dei quali sono stati ospiti delle carceri siriane, mentre molti altri avevano trovato scampo nelle fogne della città di Homs) hanno varcato il confine libanese, trovando una precaria sistemazione: i più fortunati in scheletri di abitazioni (normalmente garages), altri in tende di cartone e naylon nei campi libanesi dell’Akkar e della Valle della Beka, polverosi e assolati d’estate, sferzati da gelidi venti d’inverno. Il Libano non ha firmato la Convenzione internazionale sui diritti dei rifugiati, per cui nessun profugo siriano può beneficiare dello status di rifugiato e godere di asilo politico. Due milioni di persone solo in Libano, finite come polvere sotto il tappeto della Storia. Privati della loro patria, nella quale non possono tornare perché sarebbero considerati dei disertori. Privati della loro identità, non possedendo più alcun documento valido per l’espatrio. Privati della loro dignità, poiché costretti a vivere in tende ammassate, a bordo delle strade, in mezzo alle serre in cui si coltivano pomodori e melanzane, costretti a pagare un affitto ai proprietari libanesi per il semplice calpestio del suolo. Privati della libertà di circolazione, perché l’esercito libanese pattuglia le strade e pratica posti di blocco, quando addirittura non si spinge nei campi stessi a prelevare all’alba gli uomini e portarli per due giorni in carcere, a ricordargli che sono ospiti malgraditi e mal sopportati. Privati di qualsivoglia tutela sanitaria, poiché le strutture ospedaliere e mediche libanesi sono private e si può accedere solo a pagamento e per chi è scappato dalle bombe, portandosi via lo stretto necessario per la marcia esodale, significa essere sprovvisti della benché minima disponibilità economica.
Cosa è possibile fare per questi dannati della Terra? Intanto, portare una scintilla di allegria nel deserto della disperazione. I volontari di Operazione Colomba, dal primo giorno della loro presenza in Libano, hanno vissuto sia all’interno di un garage, sia (come avviene attualmente) all’interno di un campo profughi, in una tenda costruita con l’aiuto dei profughi, visto che da quasi cinque anni molti di loro vivono in queste condizioni estreme. Sono persone – uomini donne e soprattutto bambini – che prima vivevano esattamente come noi, la piccola e media borghesia siriana. Avevano case, un lavoro, la tutela sanitaria, le scuole; qualcuno un giardino. Ma quelli fortunati come me, che hanno avuto l’onore di percorrere un pezzo di strada – seppur breve – insieme a loro, sanno che quelle tende oggi sono vissute dai siriani come se fossero le loro case; quelli che possono, anche in condizioni di totale sfruttamento fisico ed economico, continuano a lavorare; qualcuno, come Abu Abdu, davanti alla sua tenda ha persino coltivato un giardino rampicante. Questi uomini donne e bambini hanno due colonne vertebrali. Hanno la più alta concentrazione umana di dignità per ogni cellula del loro corpo. All’interno del campo in cui ci sono le due tende di Operazione Colomba i siriani hanno costruito anche una scuola. In tutti gli angoli di mondo in cui c’è sofferenza e disperazione si distende sempre l’ombra lunga di una lavagna a illuminare il volto di bambini che non prendono lezioni, ma le danno a chi li osserva, nella loro garrula e spensierata allegria, nella loro indomita capacità a sognarsi belli, e liberi e leggeri come se si trovassero nel più verde giardino del Re. E la straordinaria forza delle donne che animano la casa con i colori dei cibi che vengono offerti a noi in segno di riconoscenza per il nostro semplice essere lì, ad affrontare con loro l’esperienza di espatriati con la forza. Tutti hanno bisogno di raccontare, ogni giorno, davanti a una tazza di tè, o di mate, o di caffè, la loro vita precedente. Ma lo fanno senza alcuna nostalgia, perché si sono portati dietro tutto. Per loro la memoria è sinonimo d’identità. Tutto è ancora presente. Da questo sentimento sgorga la speranza di tornare là, da dove sono partiti. Solo noi pensiamo che scalpitino per raggiungere l’Europa, indotti a questo convincimento dalla dittatura massmediatica, che travisa i fatti per informarci distortamente. Ma non tutte le distorsioni sono dolose: molte sono solo colpose. Tele-visione vuol dire guardare da lontano e chi guarda da lontano non può – ovviamente – capire profondamente come chi, invece, ha scelto di condividere le giornate, i mesi, gli anni, insieme a chi soffre. Amare il prossimo significa stargli il più vicino possibile. Operazione Colomba ama essere prossima al prossimo che vive il conflitto, e per questo soffre, è minacciato da guerre, da eserciti, da paramilitari, da armi clandestine. Chi scrive è un volontario che desidera testimoniare la sua piccola/grande esperienza attraverso il canale migliore di cui dispone: che non è q\uello giornalistico ma (purtroppo, mi vien da dire, in questi tempi) quello poetico. La poesia, oggi come ieri, deve essere in grado di dare voce a chi non ce l’ha, perché gli è stata tolta con la violenza delle armi o con la violenza più subdola e occulta dello sfruttamento economico.
Per questo desidero concludere la mia riflessione con due mie poesie che ritraggono rispettivamente Abu Abdo, un uomo che è stato detenuto e torturato nelle carceri siriane ed è riuscito a varcare il confine insieme alla sua nuova moglie e i due figli avuti dalla prima, deceduta sotto un bombardamento aereo; e Ahmed, un bambino che rappresenta la speranza dell’intera umanità. Sarà lui a trovare una soluzione e a salvarci. Ce lo suggeriscono due parole che hanno la stessa etimologia: problema e progetto. Entrambe significano gettare qualcosa dall’altra parte, superare un ostacolo. Chi ha molti problemi, come Ahmed, inevitabilmente ha anche molti progetti. Uno di questi ci traghetterà finalmente nel terzo millennio, fatto di rispetto, di pace. Di nonviolenza.
ABU ABDO
Smagrito per l’attrito cruento delle torture
per le calure innaturali delle celle del carcere siriano
la sua mano è capace di tutto tranne che di violenza
la sua resistenza è stata di portare in salvo la famiglia,
la meraviglia più piccola si chiama Zidra
sua moglie è un’edera d’amore e di devozione
l’affascinazione silente delle donne musulmane
che sono delle tane profonde
dove le onde del desiderio
non devono giungere in superficie.
Abu Abdo è una cicatrice rimarginata
la ferita è stata medicata da questa sua nuova esistenza
l’appartenenza agli sfrattati della Terra,
ma lui la guerra non la teme
perché nei suoi occhi vivi c’è il seme della speranza,
è così che nella sua stanza ha scolpito
un cuore attraversato da una freccia
simbolo della breccia amorosa aperta nel cuore
della moglie e della vita intera,
e così quando scende la sera, ripulito dalla polvere del lavoro
crea un coro di materassi davanti alla sua tenda
e si distende sereno e rilassato
sembra un prato fiorito in primavera
e mentre fuma molto e beve molto tè
spera che tutto questo finisca per tutti
che i flutti dolorosi di un esilio
portino buon consiglio alle democrazie occidentali
– la causa di tutti i loro mali –
e gli offrano la possibilità di dimostrare
che un vero musulmano non vuole saltare in aria
e uccidere tante persone, ma stringerci la mano
dicendoci il suo nome di uomo che crede
che la libertà sia di potere lavorare nel rispetto
dell’umanità e del futuro
perché lui è sicuro che la guerra non è mai una soluzione
ma la distruzione di ogni dignità.
Anche da qua, da questo sperduto posto
il mosto della sua allegria
fa lievitare la speranza che un domani la violenza scompaia
e gli uomini vivano in pace e sereni
come l’acqua limpida e stagna nella risaia.
AHMED
Lacrime e pugni le sue giornate di bambino
quando il destino vuole subito gli straordinari,
due occhi come due fari che illuminano il porto
un messia risorto dalle macerie di una guerra
ogni giorno terra tra le mani i piedi e i capelli
un’infanzia senza cancelli e senza serrature
dentro le arsure di una terra infuocata
non passa giornata che Ahmed non levi in aria una risata
una mitragliata di energia che sale al cielo
dentro lo stelo piccolo del suo corpo che va cambiando
dirottando i tratti infantili in quelli di un ometto.
Ahmed per tetto ha una tenda colorata
per letto un’ammassata di materassi
penserà che sono tutti pazzi gli adulti
ma non con gli insulti li combatte
ma con il gioco, da poco e niente riesce a ricavare tutto
frutto di una fantasia che non cessa mai di galoppare,
e mi ricordo i suoi occhi quando ha visto il mare
dove siamo andati per tuffarci tra la sporcizia
ma lo spirito dell’amicizia e della fratellanza
rendeva il mare una stanza dei giochi immensa,
noi dei fuochi scoppiettanti a lanciarci un pesce morto
come fosse un trofeo appena vinto.
Ahmed ha spinto tutto il giorno sull’acceleratore
sembrava un cacciatore di sogni e di altri mondi
lui che di girotondi ne ha vissuti pochi
causa traslochi forzati dal tutto al nulla
cresciuto nella culla della polvere
ma all’ombra di una lavagna
perché anche dove ristagna la disperazione
la scuola è sempre l’azione più importante della giornata
dove si scopre che la vita è dura ma variegata
un viaggio di sola andata perché il ritorno
non è del tutto certo.
Ahmed che cresce in mezzo al deserto
ma che da grande sarà un gran signore
possiederà una casa dal grande giardino fiorito
e lui ne sarà il suo primo profumato fiore.
Nelle immagini:
I volontari della Operazione Colomba nella loro tenda nel campo progughi siriani in Libano (foto di Fernando Gutierrez)
Giovani siriani in un campo profughi in Libano (foto di Fernando Gutierrez)