Sì, li andiamo a trovare i nostri morti, ma diciamolo: non più come qualche anno fa. La ricorrenza è ancora sentita e largamente rispettata, eppure si nota che la folla nei cimiteri è diminuita, le strade sopportano meglio gli ingorghi. E e poi “va bene andare a trovarli anche negli altri giorni”, se poi davvero poi ci andiamo.
Sappiamo tutto di questa festa, che in Italia cade fra Ognissanti e quella della Forze Armate a ricordo della vittoria nella prima guerra mondiale, commemorando quindi anche i caduti per la Patria. Non bastasse, perfino la moderna pratica dell’ora legale contribuisce a segnare ancora più bruscamente l’ingresso nell’inverno e nell’oscurità. Sappiamo quanto deve a precedenti riti pagani e in particolare ad Halloween.
E infatti, nè la festa di Ognissanti del 1 novembre nè la Commemorazione dei Defunti del 2 risalgono al primo Cristianesimo. La prima divenne festa di precetto solo con il re franco Ludovico il Pio nell’835. Il decreto fu emesso “su richiesta di papa Gregorio IV e con il consenso di tutti i vescovi”, ma l’iniziativa venne da un sovrano germanico che regnava innanzi tutto su popolazioni celtiche. Allo stesso modo, la Commemorazione dei Defunti viene fatta risalire al francese Sant’Odilone di Cluny nel 998, con rintocchi funebri dopo i vespri del 1º novembre e il giorno dopo con l’eucarestia offerta pro requie omnium defunctorum. La prima citazione ufficiale come Anniversarium Omnium Animarum appare per la prima volta nell’Ordo Romanus solo nel XIV secolo. E la data rimase differente da luogo a luogo; per esempio a Milano (dal XII secolo) si officiava il 15 ottobre e solo alla fine del ‘500 San Carlo Borromeo la spostò al 2 novembre.
Anche i Romani festeggiavano, o meglio esorcizzavano i propri morti (lemures, che si può tradurre anche in “fantasmi”) in giorni particolari, che erano il 9, l’11 e il 13 maggio. Sarebbe stato Romolo in persona a istituire la ricorrenza per tenere alla larga lo spirito del fratello Remo da lui ucciso. Come? Il rituale prevedeva che il pater familias gettasse alle sue spalle fave nere per il numero simbolico di nove volte, recitando formule propiziatorie. Nel 609 papa Bonifacio IV sostituì i Lemuria con il giorno della Dedicatio Sanctae Mariae ad Martyres, ovvero l’anniversario della trasformazione del Pantheon, tempio di tutti gli dei olimpici, in chiesa dedicata alla Vergine e a tutti i martiri.
Dunque la Chiesa istitutì piuttosto tardi queste feste che dovevano soppiantare “halloween” o quasiasi fosse la tradizione anteriore, celtica, germanica o latina, grondante anche del sangue di sacrifici umani. Ma solo la Chiesa cattolica occidentale. Quella ortodossa orientale, non avendo evidentemente tale esigenza da fronteggiare, continua a celebrare i tutti i Martiri il 13 maggio, mentre la Chiesa greca ricorda i defunti nella domenica corrispondente alla nostra Sessagesima, ovvero l’ottava domenica prima di Pasqua, che precede di due settimane la prima domenica di quaresima.
Halloween lugubre, sanguinaria e orgiastica, che sembra oggi prendersi la sua rivincita riemergendo come “dolcetto o scherzetto”, festicciola scolastica e party in discoteca. O forse è la sua fine definitiva. In assenza del sacro, con i prodotti della natura dispnibili negli scaffali in ogni stagione dell’anno, Halloween è una tradizione tanto poco viva quanto Ferragosto è ancora il compleanno di Augusto.
Eppure, prima dei mass media, quei riti avevano resistito benissimo. E anzi era stata la nuova religione cristiana a doversi adattare a essi. Tanto questo periodo dell’anno era incrollabilmente sentito come cruciale dalle popolazioni europee occidentali.
Tanta atavica, disperata forza possedeva quella civiltà contadina, impossibilitata a sopravvivere se non in osmosi con il calendario della natura. Per quanto riguardano le nostre terre, che furono celtiche quanto latine e non estranee ai Germani, lo spiegano fra gli altri Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi (“Calendario e tradizioni in Romagna”, il Ponte Vecchio Cesena – 2016).
Gli autori citano inannzi tutto una formula raccolta da Vittorio Tonelli a San Piero in Bagno nel 1987: Signor, e sin rivat a i Sant, fatce campà in saluta un altre tant: “Signore, siamo arrivati ai Santi, facci vivere in salute altrettanto”.
E commentano: “Questa invocazione ci dice che anche la festa di Ognissanti, 1° novembre, costituisce un importante ‘spartiacque’ temporale, un momento di passaggio, di chiusura e di rinnovamento di un ciclo. E in effetti il primo novembre era, per le popolazioni celtiche, il capodanno. Dunque un momento in cui avveniva un passaggio annuale, e come tale ritenuto aperto all’ingresso nella dimensione terrena dei defunti. (…) E nel nostro folklore troviamo diverse pratiche tese ad accoglierli degnamente quando, di notte e di primo mattino, torneranno alle proprie dimore”.
Pratiche ricordate per esempio dal riminese Gianni Quondamatteo (“E’ luneri romagnòl”, Galeati – Imola 1980): “Il giorno dei morti, la nonna andava a svegliare i bambini, invitandoli a lasciare il posto ai defunti che sarebbero venuti a riposare nei vecchi letti di casa”. E ancora: “Un’altra usanza voleva che si cuocessero le fave dei morti, cioè ceci e fave bolliti, con cui si faceva anche carità ai poveri che quel giorno giravano di casa in casa. Ma vi erano anche le ‘fave dolci’, pasticcini colorati simili agli amaretti”.
Tradizione questa dei dolci e delle fave vivissima in tutta Italia, che solo a Rimini si esprime nella Piada dei Morti, senza che se ne sia ancora chiarita l’antichità: ricetta popolare oppure, come rivendica il caffè-pasticceria Vecchi, creazione del suo fondatore e primo proprietario Ciro Brunor nel 1850?
Perfino l’uso di fare lanterne con le zucche era ben noto da queste parti prima che Hollywood e i Peanuts ci facessero conoscere Jack o’ Lantern. E forse anche la minacciosa espressione “T’e voia ad zoca zala?”, (hai voglia di zucca gialla, di litigare?) c’entra qualcosa con il macabro amuleto che doveva trattenere i trapassati fuori di casa.
Il capodanno agricolo è riamasto pressochè ovunque in Novembre – a San Martino scadono i contratti, si tirano i conti, spesso si deve traslocare sotto altro padrone. Invece il periodo di sospensione del tempo, durante il quale i morti tornano sulla terra e gli animali acquistano la parola, in Romagna è andato ad ancorarsi al capodanno di gennaio. Quando qualcosa di analogo al dolcetto o scherzetto apparteneva ai bambini travestiti da Pasqualotti, “fantasmini” canterini palesemente trasferiti dalla notte di Ognissanti a quella dell’Epifania. Fra Natale e la “Pasquella” nascono bambini “segnati”, si devono compiere gesti scaramantici e mangiare cibi propiziatori, si odono profezie, gli animali di notte parlano nelle stalle. Anche queste, tradizioni che hanno la forza di restistere ormai solo in luoghi remoti e grazie alle pro loco. I tanti proverbi romagnoli che spiegano l’importanza di questo capodanno compaiono ormai solo sui libri.
Come quello, esemplare, sempre della Valle del Savio Par i Sent u ‘riva i parent, “Per i Santi arrivano i parenti”: quelli morti.
Stefano Cicchetti