In questi giorni di enfasi trionfalistica sulle medaglie che l’Italia sta ottenendo alle olimpiadi di Rio – soprattutto da parte di chi, come me, sta seguendo l’evento comodamente in poltrona – ci sono delle lacrime che mi hanno molto colpito.
Sono quelle di Vanessa Ferrari, arrivata “solo” quarta al corpo libero.
Vanessa è, e probabilmente lo rimarrà, la più forte ginnasta italiana di tutti i tempi.
Con il suo fisico minuto e testardo di giovane ragazza bresciana, è divenuta nel 2006 campionessa del mondo, arrivando là dove mai nessuna donna del nostro Paese era mai arrivata.
Alla pari con le più grandi del pianeta.
Nel 2012 è giunta quarta alle olimpiadi, subendo una ingiusta norma regolamentare sui pari-meriti.
Ma lei non si è lasciata abbattere, nemmeno dal dolore ai tendini che dal 2008 l’affligge.
È tornata in palestra, ogni giorno, con l’odore di gesso nelle mani ed il sudore della fatica addosso.
E finalmente la sua occasione, forse l’ultima, perché nella ginnastica a 26 anni incominci ad essere vecchia.
Le olimpiadi di Rio.
Davanti a lei ha due mostri, lo sa.
Simone Biles, la divoratrice di medaglie. E Aly Raisman, campionessa olimpica a Londra 2012.
Due extraterrestri forgiate dai coniugi Karoly, che ai tempi di Ceausescu avevano fabbricato il robot Nadia Comaneci.
In più ci si mette una inglese sedicenne che fa l’esercizio della vita.
Cose che capitano sul tappetone del corpo libero.
Ci vuole una impresa, lo sa.
Ma si può tentare.
E lei tenta.
Con eleganza, grazia, leggerezza.
L’impresa è lì a portata di mano, oltre quell’ultimo salto.
Si chiama doppio carpio quell’ultimo salto e lei vola oltre la legge della gravità.
È fatta!
E invece no, Vanessa atterra e fa un passettino indietro.
La perfezione è sfumata.
E anche la medaglia, per soli 17 centesimi.
La distanza infinitesimale che separa la gioia dal dolore.
Stefano Pellizzola