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Così il nostro Mediterraneo può diventare un mare subtropicale

Il Mediterraneo potrebbe perdere la sua condizione di mare temperato e assumere caratteristiche subtropicali, soprattutto nella sua parte meridionale e centrale.

Boe oceanografiche, Agenzie e Istituti di ricerca che si dedicano al monitoraggio e rilevamenti da piattaforme satellitari sorvegliano da tempo i parametri fisici nelle acque dei mari e degli oceani. Evolute tecnologie garantiscono da tempo alta affidabilità in termini di qualità del dato e massive raccolte di informazioni.

Tra tutti i parametri rilevati quello che da tempo è più di altri sotto attenzione è la temperatura, i suoi valori e soprattutto le sue tendenze. Le banche dati sui valori termici nel Mediterraneo segnalano un incremento di 0.35 °C per decade. Se questa tendenza troverà nel tempo conferma non è irrealistico aspettarsi un aumento attorno ai 3,5°C in un secolo. Ben superiore all’incremento di 1,2°C registrato nel Golfo di Trieste nel passato secolo (1900-2000).

Altri indicatori stanno confermando questo scenario: si tratta degli indicatori biologici. Organismi animali e vegetale che grazie all’indebolimento della frontiera termica stanno conquistando areali a loro preclusi fino a non molto tempo fa.

Percezioni degli effetti indotti dai mutamenti climatici vengono colte anche dai fruitori abituali, pescatori amatoriali che si meravigliano di aver pescato lampughe a tre miglia al largo di Cesenatico nei pressi di uno dei tanti allevamenti di mitili. Poi altre catture di lecce e pesci serra poco oltre le boe di segnalazione delle acque di balneazione.

Dove un tempo non lontano si pescavano sgombri e aguglie, l’attenzione dei pescatori viene negli ultimi tempi rivolta a specie un tempo rare se non del tutto sconosciute. Si tratta di pesci “termofili”, amanti dei mari con acque calde. Dal basso Mediterraneo, quello che bagna le coste del nord Africa, si stanno spostando nelle aree settentrionali, nell’alto Tirreno e in Liguria per quanto riguarda i mari occidentali del nostro Paese, nel medio e alto Adriatico per quelli orientali, aree nelle quali la temperatura delle acque si è progressivamente alzata fino a renderla compatibile con le esigenze termiche di questi nuovi arrivati. Si consideri tra l’altro che trattandosi di predatori di pesce azzurro (alici e sardine) il loro arrivo nell’alto Adriatico soddisfa le loro necessità alimentari, senz’altro in maniera più generosa rispetto ai loro mari di origine.

Questo fenomeno nelle discussioni tra esperti viene definito con il termine “meridionalizzazione”. Definizione discutibile, derivante comunque dal fatto che specie ittiche che vivono abitualmente nell’area meridionale del Mediterraneo stanno conquistando areali per loro inusuali fini ad alcuni anni fa. Parrebbe inoltre che i citati mutamenti si stiano riflettendo in maniera negativa su pesci che al contrario prediligono acque fresche, tra questi lo spratto, lo sgombro e l’aguglia, tre specie con contingenti in netta flessione. Queste tendenze vengono tra l’altro confermate dagli sbarcati di pescato nei porti pescherecci dell’alto Adriatico.

E’ realistico supporre che la crisi degli stock delle specie ricordate sia da ricondurre alla sopravvivenza dei giovanili nel loro primo stadio di sviluppo, quello delle larva appena schiusa dall’uovo, è probabile che il riscaldamento delle acque possa incidere negativamente sulla loro alimentazione, sulla presenza di quelle forme planctoniche delle quali hanno bisogno nelle prime fasi del loro svezzamento.

Cosa sta accadendo? L’elenco dei “guasti” viene ricordato quotidianamente a noi tutti: dagli enunciati oramai consolidati sul riscaldamento del nostro pianeta, allo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari con conseguente innalzamento del livello dei mari e degli oceani, dall’accentuazione dei processi di meridionalizzazione e di tropicalizzazione, alla diffusione di germi patogeni, fino alle inondazioni e agli incendi delle foreste che assumono in certi casi estensioni continentali, come i recenti casi che hanno devastato le foreste dell’Australia e del Brasile.

A parte un sempre più sparuto drappello di negazionisti, pare oramai certo che le cause scatenanti siano da attribuire alle emissioni di gas serra di origine antropica e ai guasti conseguenti a logiche di sviluppo discutibili, in non pochi casi giustificati dalla necessità di produrre monocolture sacrificando foreste la cui estensione è da tempo in declino sull’intero pianeta.

Siamo di fronte a mutamenti epocali, sono bastate un paio di generazioni, una frazione infinitesimale di secondo se paragonata all’età biologica del pianeta, per aver lasciato tracce pesanti e indelebili.

Invertire questa tendenza è una necessità, un buon investimento sul nostro futuro.

Attilio Rinaldi
Presidente Centro Ricerche Marine di Cesenatico

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