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Buon viaggio con Grazia Nardi nella Rimini del dopoguerra

Grazia Nardi: Bonviàz. Cronache famigliari dalla Rimini del dopoguerra”Panozzo.

Un libro molto bello, ma di una tristezza infinita. Grazia ci riporta ancora una volta nella Rimini degli anni ’50, in Città, dove un proletariato misero campava alla giornata, sbarcando il lunario come meglio poteva. E per raccontarci di queste persone lo fa, come ricorda Piero Meldini nella sua prefazione, con “Detti, proverbi, sentenze, motti, facezie, epiteti, frasi fatte che non di rado, col passare degli anni, il progressivo abbandono dell’uso ha portato a smarrirne il significato”.

“Bonviàz”, non è proprio il seguito al libro di esordio della Nardi, “Armidiè” anche questo edito da Panozzo nel 2021, ma il contesto è quello, ovvero di una famiglia dialettofona di modesta condizione che negli anni Cinquanta e Sessanta abitava nel centro storico di Rimini, e ovviamente, era la sua famiglia.

Sempre Meldini: “Ripercorriamo così le precise circostanze in cui si usava questo o quel detto, e da quale membro della famiglia di preferenza, e con quali intenzioni e sfumature”. E prosegue: “Questo è un libro di voci: le voci degli uomini e delle donne, le voci del mercato e dei mestieri, le voci delle strade e le voci della casa: la voce della nonna, quella del padre, ma innanzi tutto la voce della madre Elsa, la persona con la quale Grazia ha avuto – e conserva – un legame assolutamente speciale e che è in qualche modo la coautrice, oltre che la dedicataria, dei suoi libri. Sono le voci di quanti – ed erano la grande maggioranza dei riminesi – parlavano in dialetto. Leggendo ‘Bonviàz’ sentiamo risuonare ancora queste voci, ciascuna col proprio timbro, la propria inflessione, la propria cadenza, quella che noi riminesi chiamiamo ‘gnòrgnia’. È seguendo queste voci che Grazia Nardi – e noi con lei – è tornata nuovamente alle radici, a quel mondo povero e senza istruzione, ma con una gran voglia di risollevarsi e una sconfinata fiducia nel futuro, per cui è forse sbagliato provare nostalgia, ma che sarebbe colpevole dimenticare, perché è da lì che veniamo e, bene o male, siamo quel che siamo”.

E’ un mondo materiale, dove le esigenze primarie vengono prima di tutto: il cibo (e’ magnè), i vestiti, le cose per la casa, la salute, l’affitto (e’ nòl). Non c’è spazio per i sentimenti, né per i grandi sogni. Sono le donne, ancor prima degli uomini, le colonne di questa società, le ‘azdore’. Ma, come scrive Grazia, se “la donna aveva un ruolo di rilievo questo era per lo più esecutivo: la cura della casa, dei figli, della spesa mentre le decisioni importanti spettavano al capo famiglia, ovvero il marito, il padre, l’uomo”. “Quello che faceva imbestialire molte donne, mamma compresa, era l’idea che, siccome ‘fuori’ l’uomo faticava molto, a casa doveva essere servito come se la moglie fosse una serva che oziasse o quasi tutto il giorno”.

“Bóta zó pièn che ta t’afòg” (Mangia lentamente se non ti va di traverso). “Quando c’è la fame è tutto più buono. Una semplice verità che tutti prima o poi abbiamo condiviso, ma negli anni ’50 era una regola che non aveva bisogno di conferme, un particolare quello della fame, o se si vuole della povertà, che riduceva tutto all’essenziale, nella ricerca della massima riuscita del cibo che si collegava a quella di far bastare i soldi, niente vizi, mai ‘luverie’, massimo rispetto per tutto quello che veniva servito in tavola”. E spesso questo era poco.

Il dialetto di Grazia è quello riminese “ad zità”. “Il dialetto era la lingua che consentiva alle persone, di quel tempo e di quel ceto, non solo di comunicare ma di esprimere i loro sentimenti, l’ironia, la rabbia. Una lingua ereditata da popoli abituati a doversi difendere, abituati a non sprecare niente, nemmeno le parole, una sola valeva una frase: una frase valeva un ragionamento, era l’intonazione a confermare il significato, la gestualità a completare l’esposizione”.

Sembra di vedere l’Elsa che urla a Grazia “T’pèr sèimpra incazèda” (Sembri sempre arrabbiata), “cosa ovvia dal momento che a casa mia si urlava spesso”. Le case, le strade, i mercati della Città erano rumorosi, le voci si rincorrevano, così come le chiacchiere, la privacy non esisteva. Sempre l’Elsa: “azidènt mu mè e ma che dè ca so nèda, lèra mèj se nasèva un ròsp” (Accidenti a me e al giorno che sono nata, era meglio se, allora, nasceva un rospo).

“Siamo al culmine della rabbia, dell’esasperazione e, a volte, della disperazione, un commento che ho sentito molte volte pronunciare dalla mamma. Le cause, che stavano alla base di questo stato d’animo, erano autentiche e profonde, anche se la molla, che faceva scattare, era più leggera, la classica goccia. E i motivi che, come diceva l’Elsa: ‘It magna e’ feghèt’ (Rodono il fegato), erano riconducibili essenzialmente a tre situazioni: la salute, la mancanza di soldi, e già queste due, spesso, andavano di pari passo, le liti col babbo, in parte legate alla condizione economica, in parte dovuta alla gelosia”.

Attraverso i detti dialettali sentiti in famiglia e memorizzati Grazia ci racconta la difficile vita quotidiana, le relazioni parentali e sociali, i mestieri, la scuola, il dottore, la politica. Su quest’ultima la Elsa la pensava così: “Bisogna ‘guardarsi’ da quelli che, candidati, ‘it fa bèlo bèlo, it saluta a bàca vèrta, it dmanda dla famèja, pó dòp agli elèziòun, quand’i t’incòuntra ma la strèda, is zira da cl’èlta pèrta’ (ti lusingano, ti salutano con grandi sorrisi, ti chiedono della famiglia, poi, dopo le elezioni, quando t’incontrano per strada, si girano dall’altra parte)”.

Ma quel popolo apparteneva naturalmente alla sinistra. Il padre “votava per il Partito Comunista perché un lavoratore, a suo parere, non poteva avere altra scelta”. “Quando nel rione arrivava il dirigente ‘compagno’ per tenere il comizio in vista delle elezioni, si mobilitava un’organizzazione capillare. Intere famiglie si spostavano da casa per prendere parte a un comizio importante, chi poteva indossava il vestito migliore, altri erano orgogliosi di reggere la bandiera rossa o di aver allestito il camion dove l’oratore avrebbe tenuto il suo discorso, accolto ancor prima che iniziasse a parlare con un applauso che esprimeva ammirazione e approvazione (era il caso dell’avv. Veniero Accreman), mentre l’Inno dei lavoratori suonava a mò di richiamo da almeno un’ora prima”. I nemici erano “i cul zal” (i democristiani), i “cesaról” (chiesaroli). Il mondo era bianco o nero. Da una parte o dall’altra.

Grazia ancora una volta ci ha raccontato di personaggi “un po’ eroi, un po’ filoni, in tutti i casi esemplari di una umanità molto riminese di cui siamo tutti figli per nascita o per scelta”.

Paolo Zaghini

Auguro ai miei tanti lettori di queste segnalazioni librarie, belle o brutte, Buone Feste!

(nell’immagine in apertura: il Lavatoio del Borgo S. Andrea – archivio fotografico Biblioteca Gambalunga)

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