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Addio Vito Ortelli, il romagnolo che sfidava Coppi e Bartali

Venerdì 24 febbraio, si è spento Vito Ortelli. Era nato accanto all’argine del fiume Lamone, a San Giovannino di Reda, frazione di Faenza il 5 luglio del 1921. Era il più vecchio corridore ad aver indossato la maglia rosa al Giro d’Italia.

Vito Ortelli all’arrivo di Chieti nel 1948, suo unico successo al Giro

Vito Ortelli all’arrivo di Chieti nel 1948 che gli valse la maglia rosa

Il simbolo del primato Ortelli lo conquistò il 24 giugno 1946 al termine di una tappa, la Chieti – Napoli, che Cougnet aveva definito “pirenaica”. Che strana, affascinante, deve essere stata quella calda primavera del ’46, allorché il Giro riprese a correre su strade inevitabilmente dissestate, mentre ancora si usufruiva delle tessere annonarie per procurarsi esigue razioni di cibo e c’erano le am-lire, i camion Dodge della Quinta Armata, ed i cartelli con scritto “off – limits”.

Era un’Italia povera che traeva dal ciclismo l’unico motivo di orgoglio nazionale. Era il ciclismo di Bartali e Coppi, delle imprese epiche e delle iperboliche passioni. La strada, le discussioni, la violenza degli schieramenti: Bartali, “l’uomo di ferro” che baciava le reliquie ed avanzava con santa Teresa e san Domenico appollaiati sul telaio; Coppi, il contadino silenzioso dai muscoli di seta che deridendo le montagne e volando sul piano compostamente assiso sul suo lieve traliccio d’acciaio, fidandosi laicamente della più moderna farmacopea, stava trasformando lo sport del pedale, “sottraendo il ciclista alla sua umile sorte di arrotino”.

Coppi che arrivava sempre solo, il primo uomo a vincere Giro e Tour nello stesso anno. Coppi campione del mondo. Bartali che, si diceva, avesse salvato la patria all’indomani dell’attentato a Palmiro Togliatti nell’estate del 1948.

Bartali e Coppi, certamente, erano gli eroi eponimi, ma se diamo una scorsa agli ordini d’arrivo di quegli anni, ci accorgiamo che il numero dei grandi talenti allora in attività era davvero impressionante: Koblet, Kubler, Magni, Robic, Van Stembergen, Bobet e tra costoro c’era, protagonista assoluto Vito Ortelli.

Mentre “quei due” infervoravano le folle inscenando, al contempo, oscuri sospetti, risse, denunzie, intrighi, Vito Ortelli, nel suo irrequieto procedere, nelle sue metamorfosi, nelle sue incoerenze, nel suo sfarzoso balbettio, conservava, come ebbe modo di scrivere Indro Montanelli sul Corriere della Sera il 26 maggio 1948: “il suo roseo volto di ragazzaccio che non si decide a crescere, eternamente stupito di quanto gli succede intorno”.

Certo, Vito Ortelli era un predestinato. Il padre Lazzaro, conosciuto dai più come Marchì, era un abilissimo meccanico e, quando il figliolo aveva sei anni, gli aveva costruito una biciclettina e con quella Vito scorrazzava per Faenza destando l’interesse degli sportivi locali che gli offrivano qualche soldo per vederlo in azione, tanto che ridendo Vito Ortelli affermava di essere stato il primo bambino “professionista”. Crescendo ed irrobustendosi Vito era diventato un vero corridore. Correva e vinceva ovunque: su strada, in pista ed anche nelle sconcianti gare di ciclo-cross.

Nel 1940, l’avevano selezionato per partecipare alle Olimpiadi ma poi quei Giochi non si fecero perché era scoppiata la seconda guerra mondiale. Tuttavia sempre in quello stesso anno il 10 novembre lui e Fiorenzo Magni furono invitati a prendere parte al Giro della Provincia di Milano, una corsa a cronometro a coppie di cento chilometri alla quale facevano seguito due prove in pista. Ortelli e Magni erano ancora dilettanti ma, in quell’occasione, pur confrontandosi con affermati professionisti quali: Bartali – Favalli, Coppi – Ricci, riuscirono a vincere. Il 1940 lo vide tagliare il traguardo per primo quattordici volte su diciassette corse disputate tanto che i giornali specializzati lo definirono “il Binda dei dilettanti”.

Cessata la bufera bellica, ragguagliati alla bell’e meglio i frantumi, riassorbite le percosse, Coppi ed Ortelli si ritrovarono, nel 1945 al Motovelodromo di Torino per disputare i Campionati Italiani di Inseguimento. Vinse Ortelli, sconfiggendo Coppi in semifinale e Leoni in finale, stabilendo col tempo di 6’23” (media 46,60 Km/h) il record della pista. Titolo che Ortelli ribadì, sempre ai danni di Fausto Coppi l’anno seguente, sulla magica pista del Vigorelli di Milano di fronte a 13000 persone.

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Nel suo albo d’oro, figurano il Giro di Toscana (1942), la Milano – Torino (1945), una tappa al Giro d’Italia (1947), Giro del Piemonte (1947), il Giro di Romagna (1948), titolo di Campione Italiano su strada (1948), più innumerevoli successi sulle piste di tutta Europa.

La carriera di Vito Ortelli fu, tutto sommato, breve, sospesa continuamente in un’ altalenante sequela di sprazzi improvvisi, di successi splendenti che repentinamente trapassavano in brucianti sconfitte, in ombrose riserve, in dolorose resipiscenze. Ebbe incidenti, alcuni anche bizzarri, come nel 1946 quando, pochi giorni prima del Giro d’Italia, baciò una nipotina che ignorava fosse affetta da pertosse. Era in maglia rosa quando cominciò a tossire tanto da doversi fermare sui paracarri per placare gli accessi. Di notte non riusciva a riposare e nonostante tutto riuscì a portare a termine la corsa al terzo posto.

Oppure come nel Giro d’Italia del ’47, quando nella Foggia – Pescara un secchio d’acqua lanciato da un tifoso maldestro lo colpì in pieno facendolo cadere e conseguentemente uscire di classifica. E quando una badilata di calce, gettata inavvertitamente da un muratore che stava compiendo dei lavori nella sua casa di Faenza, lo colpì agli occhi impedendogli per oltre un mese di vedere correttamente…

I ciclisti, da sempre dipinti come i condannati di una realtà umile, supplementare, respinta alla periferia dalla marea della storia, furono in quegli anni del dopoguerra, fino al 1953, fino al titolo mondiale di Coppi a Lugano, figure imponenti capaci di alzare sfavillanti tributi all’eroismo e gli italiani del tempo che conoscevano il senso concreto della fatica e del lavoro si identificavano in loro. Il ciclismo insieme alla politica era motivo di discussione nelle piazze, nei caffè, sui luoghi di lavoro.

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Chiusa la carriera, Ortelli fu tra i fondatori dell’ACCPI, si impegnò pure come direttore sportivo e direttore di corsa poi si ritirò nel suo negozio (con annesso laboratorio artigianale) posto nel centralissimo Corso Saffi a Faenza. Lì vedevano la luce i suoi meravigliosi telai, miracolosi gioielli di tecnica e di raffinatezza. In breve la bottega di Ortelli divenne un vero e proprio punto di ritrovo per corridori e sportivi ma era Vito che sempre e comunque teneva banco. Lì anche da Rimini come da tutta la Romagna e non solo si andava per ascoltare e Vito Ortelli, inarrestabile dava la stura a innumerevoli rievocazioni.

Agglutinando con densità esasperata eterogenei strati semantici ti introduceva nella vertigine dei ricordi, con improvvisi trabalzi ritagliava le passate stagioni ed i personaggi da lui rievocati si affastellavano in un pigia pigia affannoso ed oltremodo affascinante. Ritornava in vita, come per incanto, la filiforme siluetta di Coppi, la singhiozzante pedalata di Bartali, la precoce calvizie di Magni ed accanto a codesti eroi dell’Olimpo ciclistico trovavano posto anche oscuri personaggi che mai hanno potuto assurgere agli onori della cronaca come quell’anonimo ciclista in giacca e cravatta che, su una monumentale bici da viaggio (quelle con i freni a stanghetta), in un torrido pomeriggio agostano dell’immediato dopoguerra percorreva le infocate pietraie del Barbotto.

Vito Ortelli con Gino Bartali

Vito Ortelli con Gino Bartali

“La polvere dei calanchi sulfurei – raccontava Vito Ortelliavvolgeva me e Aldo Ronconi, impastandosi col sudore di cui erano intrise le nostre maglie di lana. Salivamo in silenzio maledicendo quel fondo scistoso che impediva ai tubolari Clement di scorrere agevolmente. Spingevamo, con professionale rassegnazione il nostro 49X21 (un mostruoso rapporto che sviluppa 4,88 metri), quando un tale avviluppato in uno scuro completo a doppio petto con estrema noncuranza ci sorpassò. Ci guardammo Ronconi ed io e quasi increduli allungammo il passo. Il ciclista piovuto dal cielo, per tutta risposta, si alzò sui pedali e prese a scattare. E Paruch (era questo il soprannome di Aldo Ronconi, avendo egli un fratello, Silvio, che era sacerdote) dovette mollare. Io, affiancai il “matto”, ma costui trovandomi accanto si spazientì ed in modo rancoroso mi apostrofò: Chit pens ad essar, Ortelli? Risposi con un fil di voce: Me a so za Ortelli. Mo te chi sit? Per tutta risposta, lo sconosciuto pedalatore si mise a ridere sguaiatamente e disse: Smettla ad fe e stopid. Se ta gne la fe stat in te let che la bicicletta la n’è par tott! Sai cosa feci? Concluse Ortelli – Sterzai al ciglio del fosso e mi fermai attendendo che sopraggiungesse Ronconi”.

Sicuramente Vito si era inventato questa storia. Nessun ciclista con la bici da viaggio avrebbe potuto staccare quei due. Questo è certo. Ma quel ciclista misterioso, senza nome e senza volto, sbucato dal nulla che violò il terribile Barbotto, dovrebbe far meditare tanti presunti grandi sulla propria inanità. Anche l’ultimo grande di quella incomparabile generazione se ne è andato. Scrivo queste righe con una lacerante nostalgia di giovinezza, una senile rincorsa alle memorie più lontane, quasi fossero una sorta di requiem per me stesso.

Enzo Pirroni

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