Negli ultimi anni di novità legislative che hanno caratterizzato la disciplina dell’ attività degli Enti Locali ed in particolare i Comuni, merita senz’altro attenzione l’attribuzione ai Sindaci, in qualità di Ufficiali del Governo, di emanare provvedimenti contingibili ed urgenti, le cosiddette ordinanze extra ordinem, in materia di incolumità pubblica e di sicurezza urbana.
Forti della legittimazione politica derivante dall’elezione diretta, essi sono stati forniti di strumenti che nelle intenzioni del legislatore avrebbero dovuto offrire risposte immediate e celeri a esigenze e bisogni considerati urgenti e improcrastinabili per il governo della sicurezza delle comunità locali.
Spesso e volentieri, però, tali strumenti si sono rivelati un vero e proprio “buco nell’acqua”, soprattutto quelli volti a prevenire, contrastare e reprimere il fenomeno atavico della prostituzione, in quanto completamenti “smontati” in diritto dagli organi giurisdizionali che di volta in volta sono stati chiamati a pronunciarsi sui ricorsi dei cittadini colpiti dal provvedimenti; ricorsi, beninteso, redatti da quegli avvocati che, a dire di qualche sindaco ( ..”poi come sapete in Italia ci sono gli avvocati….” ), sembrerebbero di intralcio, più che alla lotta alla prostituzione in sé, piuttosto alla personale passerella mediatica strappa applausi dei sindaci stessi nel momento in cui divulgano i dati e i numeri delle contravvenzioni elevate agli avventori, con la convinzione che in questo modo la sola minaccia di una sanzione pecuniaria possa contribuire a deflazionare il fenomeno del meretricio ed aumentare il loro consenso politico.
Le sentenze della Corte Costituzionale hanno poi sicuramente aiutato i Tribunali e le Corti di merito e di legittimità a demolire i provvedimenti sindacali emanati nell’ ambito della sicurezza urbana in generale , dichiarandone l’ illegittimità e quindi: a) annullandoli (TAR e CDS); o b) disapplicandoli (Giudici Ordinari, in particolare le sezioni Penali dei Tribunali chiamati a pronunciarsi sulla violazione dell’ art. 650 del C.P. ).
In ordine a quest’ ultima fattispecie penale, sui cui ritorneremo e che dovrebbe fornire copertura sanzionatoria (e quindi fungere da deterrenza) alla violazione delle ordinanze anti prostituzione, si era pronunciata anche la Procura di Rimini in quanto l’ ufficio del procuratore capo Dott. Paolo Giovagnoli, “bocciava” le ordinanze firmate dal sindaco Andrea Gnassi.
Ricorderete, infatti, che i magistrati riminesi cominciavano a chiedere l’archiviazione delle violazioni commesse dalle prostitute nel periodo di decorrenza dell’ ordinanza contingibile ed urgente perchè affermavano che esse rappresentavano una discriminazione dei cittadini davanti alla legge. La motivazione che compariva nella richiesta di archiviazione della Procura tornava a fare riferimento all’ articolo 650 del codice penale: “un sindaco non può emanare provvedimenti in tema di ordine pubblico e sicurezza, oppure obblighi o prescrizioni che diventano fattispecie di reato e dunque, come tali, perseguibili penalmente” .
La Procura nella richiesta di archiviazione scriveva che un’ordinanza come quella riminese risultava in contrasto con l’ articolo 3 della Costituzione in quanto lede “il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, perché gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci. Non si tratta di adattamenti o modulazioni di precetti legislativi generali in vista di concrete situazioni locali ma- recita il testo del procuratore capo- di vere e proprie disparità di trattamenti tra cittadini, incidenti sulla loro sfera generale di libertà che possono consistere in fattispecie nuove ed inedite, liberamente configurabili dai sindaci, senza base legislativa”.
Nel dibattito si è anche inserito più volte, come dicevo, il giudice costituzionale impegnato a vagliare la legittimità costituzionale della normativa statale attributiva dei poteri sindacali con pronunce, precise, puntuali e motivate che però pare abbiano insegnato poco, sia al legislatore che agli utilizzatori finali del potere di ordinanza, in quanto per una mera questione di consenso che li accomuna, il primo continua ad illudere la comunità politica di poter smantellare determinati fenomeni con l’ emanazione di norme di rango legislativo che, come finalità, si prefiggono di colpire “il fenomeno prostituzione” ma che poi pongono delle restrizioni a liberta fondamentali costituzionalmente garantite senza disciplinarne le modalità ed i limiti rimandando il tutto alla fantasia creativa dei provvedimenti amministrativi ( quindi di rango secondario) dei sindaci; questi ultimi, di contro, scimmiottando a livello di comunità locale, per non essere da meno, se non altro a livello mediatico-giornalistico o di “like” sui social, alla figura del legislatore statale, emanano, promettono e minacciano di emanare, ordinanze contingibili ed urgenti che “durano lo spazio di un contenzioso”, penale, e/o amministrativo in particolare a seconda che l’ avventore subisca prima il processo penale oppure, come più spesso accade attivi lui stesso la giurisdizione del TAR sia contro la “contravvenzione elevata” che “l’ ordinanza contingibile ed urgente “di copertura”.
Quando, addirittura, non sia un semplice cittadino che come “residente nel luogo di efficacia dell’ ordinanza” non condivide la finalità del provvedimento sindacale .
Ad esempio a Firenze Il ricorso contro “l’ordinanza antiprostituzione del Sindaco Nardella “ è stato presentato da un legale fiorentino, l’avvocato Francesco Bertini. “Non è l’atto di un cliente indispettito”, spiega al quotidiano La Nazione che ha pubblicato la notizia del ricorso, facendo capire che si tratta dell’iniziativa di un uomo di legge, che ha titolo per ricorrere al Tar in quanto residente a Firenze contro “un’ordinanza incostituzionale e contraria anche al decreto Minniti al quale dice di ispirarsi”. Secondo l’avvocato Bertini, infatti, l’ordinanza del sindaco Dario Nardella violerebbe le leggi dello Stato al quale la Costituzione riserva le questioni di sicurezza e ordine pubblico, determinando a Firenze una situazione diversa da quella del resto del Paese.
Se si analizzano alcune pronunce dei diversi organi giurisdizionali sulle ordinanze sindacali in materia di sicurezza urbana (e come abbiamo detto non solo i giudici amministrativi, ma anche i giudici ordinari sono stati chiamati a pronunciarsi sulle ordinanze) e in particolare quelle che hanno dovuto esaminare i ricorsi contro le ordinanze previste dal TUEL all’ art. 54 nel testo previgente (perché non risultano ancora, almeno nelle riviste specializzate, ricorsi contro aventi ad oggetto quest’ ultimo provvedimento e/o contro le ordinanze in esso previste eccetto quella ut supra) alle modifiche poste n essere con il Decreto Legge 20 febbraio 2017 n. 14 (Decreto Minniti ) coordinato con le modifiche introdotte dalla legge di conversione 18 aprile 2017 n. 48, si può notare che gli organi giudicanti sono dovuti intervenire spinti dalla necessità e dal dovere di tutelare alcuni diritti fondamentali nei confronti di provvedimenti sindacali a carattere discriminatorio.
Infatti, nonostante i tentativi di prospettare letture costituzionalmente orientate della disciplina legislativa del potere di ordinanza sindacale in materia di sicurezza urbana, questa è stata più volte sottoposta al vaglio del giudice costituzionale.
Chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale del comma 4 dell’art. 54 del Tuel, la Corte costituzionale con la sentenza n. 115 del 2011 ha affermato che “un potere di ordinanza dei sindaci, quali ufficiali del Governo, non limitato ai casi contingibili e urgenti – pur non attribuendo agli stessi il potere di derogare, in via ordinaria e temporalmente non definita, a norme primarie e secondarie vigenti – viola la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., “ in quanto non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in un ambito, quello della imposizione di comportamenti, che rientra nella generale sfera di libertà dei consociati. Questi ultimi sono tenuti, secondo un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare “soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge “.
In buona sostanza la Consulta ha dichiarato incostituzionali le cosiddette ordinanze sindacali «ordinarie» – pur rivolte al fine di fronteggiare «gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana» – impossibilitate a derogare a norme legislative vigenti, salvando invece quelle si fondino sul presupposto dell’urgenza a condizione però della temporaneità dei loro effetti.
A queste ultime ha posto dei limiti in particolare stabilendo che” deroghe alla normativa primaria, da parte delle autorità amministrative munite di potere di ordinanza, sono consentite solo se “temporalmente delimitate” e, comunque, nei limiti della << concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare >>
Il Decreto Minniti dell’ Aprile scorso, sembrerebbe formalmente aver superato quelle censure di costituzionalità che investivano “la riserva di legge” rispetto a quanto contestato al Decreto del ministro dell’Interno del 5 agosto 2008, in quanto ne ha riportato il contenuto nel nuovo comma 4 bis dell’ art. 54 TUEL, quindi all’ interno di una fonte di rango legislativo << I provvedimenti adottati ai sensi del comma 4 concernenti l’incolumità pubblica sono diretti a tutelare l’integrità fisica della popolazione, quelli concernenti la sicurezza urbana sono diretti a prevenire e contrastare l’insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, la tratta di persone, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili, ovvero riguardano fenomeni di abusivismo, quale l’illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati all’abuso di alcool o all’uso di sostanze stupefacenti >>.
Non sembrerebbero, di contro, del tutto fugati i dubbi di costituzionalità dello stesso Decreto, questa volta sostanziali, relativi alla riserva di legge relativa fissata dall’art. 97 della Costituzione allo scopo di assicurare l’imparzialità della pubblica amministrazione, la quale può soltanto dare attuazione, anche con determinazioni normative ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla legge.
Questo perché l’assenza di una valida base legislativa viola l’art. 3 della Costituzione e lede il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci.
Inoltre altre condizioni d legittimità previste dal giudice costituzionale parrebbero tutt’ ora non rispettate vista la persistente attuale genericità ex lege del conferimento di un potere amministrativo.
In primo luogo, il conferimento di poteri amministrativi deve rispettare il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio non consente «l’assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge a una autorità amministrativa, «che produce l’effetto di attribuire, in pratica, una “totale libertà” al soggetto od organo investito della funzione».
Pertanto, non è sufficiente che il potere sia solo finalizzato dalla legge ( attuale comma 4 bis art. 54 TUEL ) alla tutela di un bene o di un valore, quale può essere la sicurezza urbana. Infatti, seconda considerazione, è indispensabile che siano previamente determinati con legge contenuto e modalità di esercizio del potere amministrativo, «in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa».
Questo ad oggi non sembrerebbe garantito con le modifiche apportate dal Decreto Minniti.
Rimanendo al tema specifico della prostituzione c’ è da dire che fronte delle ordinanze creative i giudici hanno chiarito che l’ordinamento vigente non consente la repressione di per sé dell’esercizio dell’attività riguardante le prestazioni sessuali a pagamento prescindendo dalla rilevanza che tale attività possa assumere sotto altri profili, autonomamente sanzionabili, per le modalità con cui è svolta o per la concreta lesione di interessi riconducibili alla sicurezza urbana (Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, Sez. III, ordinanza 8 gennaio 2009, n. 22).
Da queste affermazioni è fatta scaturire l’illegittimità delle ordinanze con le quali sono vietate su tutto il territorio comunale senza limiti e sono conseguentemente suscettibili di sanzione, anche condotte che, descritte in modo approssimativo e generico, possono risultare in concreto non lesive di interessi riconducibili alla sicurezza urbana in quanto non dirette in modo non equivoco all’esercizio dell’attività riguardante le prestazioni sessuali a pagamento, quali «l’intrattenersi anche dichiaratamente solo per chiedere informazioni, con soggetti che esercitano l’attività di meretricio su strada o che per l’atteggiamento, ovvero per l’abbigliamento ovvero per le modalità comportamentali manifestano comunque l’intenzione di esercitare l’attività consistente in prestazioni sessuali» (Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, Sez. III, ordinanza 8 gennaio 2009, n. 22).
Sul fronte del regime sanzionatorio il richiamo contenuto nelle ordinanze a sanzioni penali ( art. 650 C.P. –Inosservanza dei provvedimenti dell’ autorità-), con il conseguente obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, si concretizza non tanto nell’immediata inflizione di una sanzione, ma nella minaccia di avvio di un procedimento giudiziario.
Infatti, in via sussidiaria, l’art. 650 del codice penale consente di applicare una sanzione penale per “chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o d’igiene “.
Alla luce di questo scenario, la giurisprudenza non ha mancato di delimitare lo spazio di manovra dei Sindaci e, dunque, il regime sanzionatorio legale tipico connesso alla violazione delle ordinanze sindacali, chiarendo che nell’ordinamento la contingibilità e l’urgenza << costituiscono il presupposto per permettere l’applicazione della sanzione penale di cui all’art. 650 c.p., >> e che in ogi caso , ” non integra il reato di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità (art. 650 c.p.) l’inottemperanza dell’ordinanza contingibile e urgente del sindaco che non riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato e si risolva in una disposizione di tenore regolamentare data in via preventiva ad una generalità di soggetti, in assenza di riferimento a situazioni imprevedibili o impreviste, non fronteggiabili con i mezzi ordinari, non essendo sufficiente l’indicazione di mere finalità di pubblico interesse “.
Dunque anche sul fronte sanzionatorio le roboanti minacce dei Sindaci di denunce penali si dissolvono nella pratica giudiziaria come neve al sole viste le condizioni sostanziali necessarie che devono sussistere per conformare la fattispecie penale, in aggiunta poi alla pratica procedurale che vede spesso tali comportamenti essere racchiusi, eventualmente, in un mero decreto penale di condanna ad una pena pecuniaria, che con la premialità del rito può essere totalmente irrisoria e senza nessun effetto deterrente, sempre che il P.M. non decida di archiviare prima della richiesta di emissione del decreto penale.