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31 maggio 1799 – Rimini insorge e scaccia i francesi

Rimini, 31 maggio 1799: «Oggi è stata un’altra giornata di gran funesta; verso mezzo giorno si è saputo che il Conte Fabert Francese con circa 150 soldati Piemontesi, e altri di suo seguito veniva con un canone avanti per entrar in Città. Tutti li nostri Solevati, con li Contadini ed alla testa il Tenente Carlo Martiniz sono andati in contro con canone, ed hanno fugati li Nemici, col far prigionieri sette, e morti si dice altrettanti; vanno dietro al Comandante, e tutti gli altri si sono dispersi; questa sera hanno fatti prigionieri altri, e presi due pezi di canone. La nostra popolazione è molto riscaldata. Il nostro vescovo Feretti ha fatto un fervorino sulla Piazza della Fontana al Popolo, ha fatto liberare il Padre, ed il Figlio Zavagli dall’arresto, ed ha creato unitamente al popolo un Magistrato, ed il Comandante Civico. Il Magistrato è composto di 5 soggetti: Ercole Bonadrata, Marco Bonzetti, Girolamo Soleri, Carlo Zollio, e Giuglio Cesare Bataglini, ed il Comandante Giovanni Battista Agolanti. La residenza del Magistrato è in Casa Gambalunga».

Così riporta il mercante Nicola Giangi negli appunti quotidiani vergati nel suo stentato italiano. Ma cosa sta succedendo?

Rimini è nella Repubblica Cisalpina; la Repubblica Francese, dopo le sorprendenti vittorie del giovane generale Napoleone Bonaparte, da tre anni controlla di fatto l’Italia. Ma Napoleone ora è bloccato in Egitto, la sua flotta distrutta dagli Inglesi di Nelson. E allora in Italia è calata la coalizione anti-francese, guidata nientemeno che dai Russi. Il  27 aprile il generale Aleksandr Vasil’evič Suvorov sconfigge a Cassano d’Adda i franco-cisalpini del generale Barthélemy Catherine Joubert. I Francesi devono sgomberare Milano e la Lombardia, poi il 25 maggio evacuano Torino e il 27 Napoli.

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Il generale Suvorov guida i Russi nella battaglia di Cassano d’Adda

In questa situazione, anche a Rimini c’è fermento. La città è divisa fra innovatori filo francesi e nostalgici della tradizione. Divise anche le stesse classi sociali, nobiltà ed ecclesiastici inclusi, anche se fra i borghesi e gli artigiani della città si guarda con più favore alle novità della Rivoluzione, mentre campagne e marineria restano ancorati all’Ancien Régime. Ma al di là delle idee, il comportamento dei Francesi non riscuote più grande entusiasmo nemmeno fra i primi sostenitori: ruberie travestite da requisizioni, esecuzioni, atti sacrileghi gratuiti, non corrispondono esattamente alle attese del “mondo nuovo” che in tanti nutrivano.

Il 30 maggio si sparge la voce che Forlì è insorta, che si bruciano gli Alberi della Libertà e si arrestano funzionari repubblicani e “giacobini”.

Intanto fin dall’alba un brigantino austriaco a otto cannoni incrocia davanti al porto. Il generale Fabert, comandante francese della piazza, manda subito la truppa sulla palata per mettere in batteria un grosso cannone.

Un brigantino di inizio Ottocento

Un brigantino austriaco di inizio Ottocento

Nel pomeriggio, il brigantino si avvicina. Accorrono sul porto anche gli ufficiali francesi, a cavallo, seguiti da un codazzo di curiosi. Ed ecco che tutti i pescherecci che erano in mare rientrano frettolosamente.

«Il brigantino austriaco – scrive Carlo Tonini – ridottosi a poca distanza dal molo, prende a far fuoco contro la trincea. Il Fabert ordina che gli si risponda col cannone, e per tal modo il combattimento è ingaggiato. Allora i pescatori, rientrati, come si è detto, in porto, e scesi a terra, si attruppano colla moltitudine accorsa degli abitanti dello stesso porto, e armati di remi, di bastoni e di picche si gettano addosso ai comandanti e ai soldati repubblicani, li battono e li scompigliano, e in breve li costringono a desistere dalla difesa e a darsi a precipitosa fuga. Il legno imperiale colto il destro, entrò in porto: e il tenente di marina Carlo Martiniz, sceso a terra co’ suoi pochi armati, si congiunge coi sollevati marinari, e tutti insieme assalgono la porta della città, ne cacciano le guardie, e preceduti dal vecchio parone borghigiano Giuseppe Federici, detto volgarmente il glorioso, percorrono le vie maggiori, schiamazzando e gridando — morte alla Repubblica — morte ai Giacobini — viva il Papa — viva l’Imperatore — viva la Religione. — Giunti sulla piazza della Fontana, vi disarmano la Guardia nazionale, atterrano ed abbruciano i vessilli della libertà, e vi sostituiscono quelli di Cesare e del Pontefice».

"S. Antonio da Padova protegge l'esercito della Santa Fede", stampa popolare

“S. Antonio da Padova protegge l’esercito della Santa Fede”, stampa popolare dei Sanfedisti napoletani

È la sollevazione: «Per prima cosa sono invase le carceri, e ne son liberati tutti i delinquenti d’ogni specie». Poi tocca la palazzo pubblico e a quello del governatore, che vengono saccheggiati e devastati: «Anche le donne vi prendono parte e danno mano ai rivoltosi nel trasportare quadri, tavole, seggiole, specchi e robe di qualunque specie. Nè si arrestano quei forsennati: chè investono i fondaci degli Ebrei, spezzano le porte delle loro botteghe e in breve tempo le spogliano di tutte le merci». Gli Ebrei non potevano avere dubbi sulla parte da scegliere: Papi, Imperatori e Re cattolici li avevano chiusi nei ghetti, sui quali ciclicamente si abbattevano devastazioni come quella. La Repubblica appena due anni prima aveva invece abolito la segregazione e li aveva resi cittadini come tutti gli altri.

Intanto, come ricorda Antonio Montanari, si succedono i prodigi: “Il capo degli austriaci sbarcati a Rimini, tenente Carlo Martiniz, alloggia in casa di Giuseppe Pari «detto Blablà», dove il 27 luglio 1796 un’immagine della Vergine dell’Aspettazione ha girato gli occhi. Pochi giorni prima, il 19 luglio, nel Borgo San Giuliano un’Addolorata ha pianto. Il giorno 20 ha mosso gli occhi la Madonna dell’oratorio di san Girolamo. Il 29 il Crocefisso della Confraternita della Santa Croce apre «gli occhi e la bocca». Miracoli simili si registrano a centinaia in tutto lo Stato ecclesiastico tra giugno 1796 e febbraio 1797”.

A quel punto del tumulto, però, chiunque possieda qualcosa è nel panico, da qualsiasi parte stia: «Ognuno temendo il furore della plebaglia cerca di porre in salvo le proprie sostanze e le cose più care sotterrandole o chiudendole ne’ muri o gettandole ne’ pozzi e nelle fetide sentine».

Il tenente Martiniz prova a riportare la calma, prima a voce poi a sciabolate; niente da fare. Arriva allora il canonico Ottavio Zollio (sarò poi vescovo di Rimini, tacciato di “liberalismo”) e «con dolci e affabili modi» placa gli animi. Il Martiniz ne approfitta e prima di sera fa affiggere un proclama: o restituire il bottino delle ruberie entro 24 ore, o fucilazione«Fu in parte obbedito».

Ma il giorno dopo, 31 maggio, dalla campagna e dai monti cala «un gran numero di villani, quali armati di falci, di zappe, di mannaje e di bastoni, quali di lunghe e rugginose spade e di antichi archibugi». Infatti dal 27 maggio erano insorte Saludecio, Montecerignone, Sassofeltrio, Pennabilli e tutte le vallate tra il Cesenate e Montefeltro. Un parapiglia scoppiato presso la casa «dell’egregio dottore in legge Francesco Zavagli, uomo integerrimo e causidico di molto nome» provoca l’arresto suo e del figlio Antonio, fra urla e archibugiate.

Ora accanto al Martinitz deve intervenire il vescovo Ferretti in persona, «e fermatosi sul ponte del rigagnolo della fontana (nell’odierna via Gambalunga, che all’altezza di piazza Ferrari era attraversata da un ponticello per superare lo scolo cielo aperto della Fontana) presso la chiesa del Suffragio si diede a pregare il popolo». Nonostante i molti “Viva il vescovo!”, gli arrestati della famiglia Zavagli vengono liberati solo a fatica.

Seguono gli avvenimenti narrati da Giangi. Fabert e i suoi franco-piemontesi ricompaiono a un miglio dal borgo S. Giuliano, ma sono ricacciati a S. Giustina.

La lapide in via Destra del Porto che ricorda la rivolta della marineria riminese

Il giorno dopo Martiniz va a snidarlo con un centinaio di cavalieri volontari e lo costringe ad abbandonare la posizione, nonché, scrive ancora il Tonini, «i due suoi cannoni di campagna, la sua stessa carrozza di viaggio, una bandiera e la cassa militare. Molti soldati francesi e piemontesi lasciarono la vita sul campo, molti furono fatti prigionieri. La vittoria non poteva quindi essere più compiuta. Lo stesso Fabert, fuggendo a traverso della Marecchia e delle colline, in compagnia del suo fedele aiutante Gironda riminese, il quale nella fuga perde cappello, sciabola e cappotto, si rifuggì coi pochi rimastigli nel Forte di S. Leo, che teneasi ancora per la Repubblica. Alle 12 meridiane del dì seguente (1 giugno) le nostre genti ritornarono trionfanti col condottiero austriaco menando seco i cannoni e le altre cose tolte al Fabert. E non è a dire con quanta festa e con quanta ovazione fossero accolte dai cittadini».

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