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11 luglio 1777 – Il papa di Cesena taglia la Diocesi di Rimini

L’11 luglio 1777 Papa Pio VI, il cesenate Giovanni Angelico (o Giannangelo) Braschi, firma la Bolla che modifica i confini delle diocesi di Rimini e Cesena. Più precisamente, come annota Luigi Tonini«furono tolti alla Diocesi di Rimini i Paesi e le Parrocchie di S. Teonisto, Montiano, Montenovo, Longiano, Monte il Gallo, Balignano, Gatteo, Il Bosco (Gambettola, ndr) e S. Angelo, per estendere quella di Cesena sua patria».

I Riminesi protestano vivacemente e adducono la cosiddetta Bolla Sipontina di Papa Giulio II, con la quale nel 1509 la città si sottometteva completamente alla Santa Sede, ma a condizione di mantenere una serie di privilegi, fra cui «che nessuna parte dovesse mai stralciarsi da questa Diocesi». Al che Pio VI risponde, serafico, che «non avrebbe permesso quello smembramento se ciò fosse stato prima a sua cognizione».

Il fatto è che Pio VI in pieno Settecento si sente in tutto e per tutto un papa rinascimentale. Tutto il suo pontificato, fra luci e ombre, è contrassegnato da molti e costosissimi tentativi di far rivivere i fasti e lo splendore del suo modello, Leone X, nella promozione delle arti e delle opere pubbliche; ma anche nello sfarzo e nel nepotismo. Allargare la Diocesi natìa fa parte di quest’ultimo aspetto, insieme a favorire in ogni modo la cerchia dei suoi famigliari. Una politica che ha donato a Roma, fra gli altri, il palazzo tra Piazza Navona e Corso Vittorio Emanuele II, opera dell’architetto imolese Cosimo Morelli e attualmente sede del Museo di Roma a palazzo Braschi. Ma che in 24 anni di regno lascia le finanze vaticane completamente stremate, come dovrà ammettere perfino “La Civiltà Cattolica” nel 1906.

Gli interni di Palazzo Braschi, oggi sede del Museo di Roma

A parte ciò, i nuovi confini che dividono le due Diocesi vanno anche a mettere un punto fermo a una controversia che si trascina da secoli: quella sul Rubicone.

In parole povere, la Chiesa, anche perché dal punto di vista amministrativo si ritiene legittima discendente dell’impero romano, nelle sue suddivisioni territoriali ha tendenzialmente perpetuato quelle fissate dai Cesari e anche prima. Com’è noto, il Rubicone segnava in origine il confine stesso della Res pubblica romana: il sacro limen. Quando poi nel 7 d.C. Augusto portò il limen fino alle Alpi, il Rubicone restò a segnare appunto la divisione amministrativa fra i territori delle civitates di Ariminum e Caesena. E non per nulla la stessa parola “diocesi” significava in origine “governo, amministrazione” e fin dai tempi di Costantino indicava una circoscrizione territoriale amministrativa dell’impero, solo successivamente ricalcata dal diritto ecclesiastico.

Cesare passa il Rubicone

Cesare passa il Rubicone

Già, ma dov’era questo Rubicone? I nomi di tanti fiumi, Marecchia e Foglia compresi, nel medio evo erano cambiati. E i piccoli corsi d’acqua fra Rimini e Cesena avevano anche cambiato il loro corso, tanto che non era più possibile districarsi fra Pisciatello, Fiumicino e Uso, dando adito a infinite dispute, dotte quanto furibonde, con tanto di scontri armati. Perché la questione non era certamente solo accademica, come si è visto dalle notevoli conseguenze pratiche che alla fine produsse.

Dispute che non sarebbero cessate con la Bolla di Pio VI e nemmeno dopo il 1933, quando Benito Mussolini vorrà anche su questo tema apporre il suo imprimatur, cambiando il nome di Savignano di Romagna con quello di Savignano sul Rubicone e proclamando che il fatale fiume superato da Giulio Cesare era quello fin lì chiamato Fiumicino. E confermando così la scelta “nepotista” del Papa cesenate.

Il Rubicone fra Cesena e Rimini nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di uno stradario romano

Il Rubicone fra Cesena e Rimini nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di uno stradario romano

La quale Savignano, come si sa, continua a far parte della Diocesi di Rimini, ma non della provincia di Rimini. Poiché i moderni legislatori, avendo ben altre preoccupazioni che accapigliarsi sui testi di Cesare, Svetonio, Plinio e Dionigi di Alicarnasso, forse hanno inconsapevolmente colto nel segno.

Se infatti hanno ragione quegli studiosi, come Lorenzo Braccesi, che ritengono il Ponte romano di San Vito, originariamente a ben sei arcate, una celebrazione augustea della ritrovata pace con gli dei dopo il gesto sacrilego di Giulio Cesare e del suo “Il dado è tratto!”, il guado fatale sarebbe quello dell’Uso. Tutto il contrario di quanto sostenevano i Riminesi di un tempo, che, pro domo loro, spingevano il Rubicone fin sotto le porte di Cesena, identificandolo col Pisciatello.

Il ponte romano sull'Uso a San Vito

Il ponte romano sull’Uso a San Vito

(Nell’immagine di apertura, Papa Pio VI)

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