Il 26 febbraio 1509 papa Giulio II firma la Bolla Sipontina e Rimini esulta. Come mai? E di che si tratta?
Dopo la cacciata dei Malatesta, la città è tornata sotto il governo diretto della Santa Sede. Come racconta Carlo Tonini (“Compendio della storia di Rimini”, 1896) “la prima sua sollecitudine fu quella di chiedere al Pontefice una serie di privilegi e di grazie, come avea già fatto presso il veneto Senato”. Rimini era infatti passata brevemente sotto il governo della Serenissima, cui Pandolfaccio Malatesta l’aveva venduta.
“Furono presentate le domande per mezza di tre ambasciatori, i quali furono Carlo Maschi, Giovanni Benzi e Giacomo Ricciardelli nobili riminesi, e con umile istanza, in cui dicevasi che la città, dopo lunga errare, conducevasi finalmente al grembo della madre. E il Pontefice, con bolla data il 26 febbraio 1509 al commissario Apostolico Antonio da Monte Savino arcivescovo di Siponto e detta perciò comunemente la bolla Sipontina, quelle grazie e quei privilegi benignamente concesse, dichiarando in modo solenne, che sebbene egli fosse tenuto di provvedere al vantaggio di tutte le città soggette al dominio temporale della Chiesa, pure tanto più accuratamente gli conveniva rivolgere lo sguardo della sua considerazione a questa nostra, quanto più ella tra le altre di Romagna era insigne e famosa, e quanto più i suoi cittadini e abitatori si erano mostrati pieni di devozione e di affetto verso la Sede Apostolica”.
Ma cosa chiedevano in particolare i Riminesi nel 1509? “Che tutte le terre e castella del Riminese, possedute dai Malatesti innanzi alla guerra di Pio II, fossero restituite e conservate a questa città: fossero mantenute alla medesima le consuetudini, le immunità, i diritti e gli statuti antichi, con facoltà eziandio di farne de’ nuovi, e i fatti moderare, correggere e riformare, secondo l’uopo: dovesse reggerla un Governatore insignito di ecclesiastica dignità ed eletto dallo stesso pontefice: gli uffici della città dovessero affidarsi ai cittadini abitatori di essa, e cosi pure le reggenze dei castelli a cittadini Riminesi col titolo di capitani; e la elezione loro spettasse al Comune di Rimini, come pure quella del podestà: tutti gli introiti sì ordinarii e sì straordinari, sia per vendite, sia per dazii e imposte, appartenessero alla Comunità di Rimini perché potesse far fronte alle spese necessarie al suo governo, nè altro fosse tenuta essa a pagare che un censo annuo di mille fiorini di camera in riconoscimento del dominio della Chiesa”.
Peccato che nella pratica ben pochi di quei castelli appartenenti ai Malatesta prima della guerra con Pio II tornarono a Rimini; se non altro perché quello stesso papa e i suoi successori ne avevano concessi un bel po’ ai Montefeltro e a signori minori. Gradara era degli Sforza fin dal 1461, Sassocorvaro tornata feltresca nel 1463, Monte Cerignone nel 1464; nello stesso anno Montebello passava ai conti Guidi di Bagno, come è anche oggi. Neanche provare a chiederle. Ma di castelli anche dopo il 1509 se ne persero ancora. Solo per riprendersi la minuscola Bellaria il Comune riminese dovette sudate sette camicie. Ma Santarcangelo sarebbe finita agli Zampeschi di Forlimpopoli. Perfino Verucchio, che dei Malatesta era stata la culla, Giulio II la tenne per sé, mentre il suo successore Leone X nel 1516 la diede in feudo a un musicista suo favorito, ebreo convertito di origine tedesca, cui concesse anche di portare il cognome di famiglia: Giovanni Maria Giudeo di Domenico Alemanno “de Medici”. Coriano sarebbe andata ai Sassatelli di Imola. Altre pretese centrifughe, come quella di Saludecio, furono rintuzzate. Ma ben presto si dovette scoprire che per ogni recupero degli antichi domini malatestiani, quand’anche fossero patteggiabili, i papi pretendevano indennità in denaro sonante. Facile immaginare con quale esito.
Nel documento si parla anche dell’istituzione di un nuovo Senato o Consiglio: “È noto, che prima che i Malatesti prendessero a signoreggiare in Rimini, la città si reggeva per un Senato o Consiglio chiamato generale, composto di trecento cittadini e perciò detto anche dei Trecento, e che passata quindi essa città sotto i Malatesti fu bensì mantenuto da costoro, ma non mai o di rado veniva congregato, avendone essi istituito un altro assai piccolo, formato di soli dodici principali personaggi, de’ quali si valevano come e quando lor piacesse”.
Ma l’Arcivescovo Sipontino, Commissario Apostolico, non prevede né un Consiglio dei Trecento e nemmeno quello dei Dodici. Dice invece di “istituirne un altro tutto nuovo, ordinato specialmente ad amministrare le cose del Comune. Dovesse appellarsi Consiglio ecclesiastico: lo componessero nobili, dottori, mercanti e artefici in numero di 130: da esso si estraessero i magistrati della città in numero di otto col nome di Consoli, due dei quali la reggessero di bimestre in bimestre successivamente, e se ne estraesse eziandio il piccolo dei Dodici; nè potesse congregarsi senza il permesso o 1’intervento del Governatore o dell’uditor suo: non potessero farne parte più di tre di uno stesso casato, e avesse esso medesimo facoltà di nominare i successori a quelli che venissero a mancare sia per morte, sia per qualsivoglia altra ragione”.
In pratica: Rimini, o meglio la sua oligarchia, si assicura che la città non finisca in feudo a una qualche famiglia, magari forestiera, che si erga sopra le casate locali. Queste tornano ad avere una poltrona nel nuovo “Consiglio ecclesiastico”, che però viene riunito solo quando lo decide il governatore nominato da Roma. Bene che sia un ecclesiastico, quindi senza avide figliolanze, o almeno si spera; e meglio che duri solo un anno. Ma a comandare sarà lui.
Nella Bolla Sipontina c’è anche un provvedimento arrivato fino a noi e tutt’ora in vigore: è quello che dà alla città un nuovo stemma. Fino ad allora vi compariva solo la raffigurazione araldica dei momumenti romani: Arco e Ponte. Con la Bolla papale si aggiungeva una «croce d’argento caricata di una croce rossa diminuita», cioè la croce rossa bordata d’argento in campo rosso, che è ancora l’emblema della città di Rimini.
Il motto era Libertas Ecclesiastica: non, come è stato sostenuto, «evidentemente polemico nei confronti della “tirannica” Signoria malatestiana», ma la formula “standard” di un privilegio appunto concesso tramite Bolla pontificia; formula usata per la prima volta nel 1357 per la città di Fano dal cardinale Egidio Albornoz. Più che “libertà”, concedeva una certa autonomia amministrativa a terre date precedentemente in feudo ereditario, oppure in vicariato non ereditario come appunto Fano e Rimini. Si tratta della stessa libertas che compare nello stemma di Bologna almeno dal 1366. E poteva contemplare la nomina di un governatore a scadenza annuale, che come si è visto dava a quell’autonomia un certo respiro.