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I volontari riminesi aggrediti in Colombia: “Coraggio e lacrime più forti dei paramilitari”

Alessandra di Operazione Colomba della Comunità Papa Giovanni XXIII è rientrata alcuni giorni fa a Rimini dopo la terribile avventura vissuta in Colombia di cui abbiamo raccontato alcune settimane fa. Alessandra in questo articolo racconta non solo cosa è successo quel 29 dicembre, ma cosa sta realmente avvenendo in Colombia in questi mesi. Ieri è stata al Ministero degli Esteri a Roma a raccontare quanto è avvenuto. La difesa delle comunità di pace dei campesinos colombiani passa anche attraverso la comunicazione e la sollecitazione agli organismi internazionali affinché vigilino e sostengano il processo di pace avviato (ma non certamente concluso) che è in corso in Colombia.

Di giorno sorridono, o perlomeno si sforzano di sorridere, di essere quelli di sempre. Di notte hanno gli incubi. “Questa notte ho sognato che arrivavano i para. Mi cercavano. Saltavo un fosso e scappavo nella foresta” mi racconta sorridendo, al risveglio, durante un accompagnamento un membro del consiglio della Comunità di Pace. Poi qualche giorno dopo un’altra persona: “Ho fatto un incubo questa notte. Ho sognato la mia bara che galleggiava su un iceberg”.
E questo era prima.

A Mulatos, Laura disegna una macchia nera. Laura ha 4 anni. La prof ha chiesto ai bambini di disegnare le case della vereda. “Ma questa non è una casa” osserva la prof. Laura risponde che la macchia nera è la casa dei paramilitari. A soli 4 anni Laura li ha già visti troppe volte entrare nell’aldea dove vive, coi loro cappucci neri e le armi a tracolla, cercare persone, minacciare. La macchia nera è una realtà fin troppo evidente per una bambina di 4 anni.
E anche questo era prima.

La sensazione di un cerchio che si stringe e si fa opprimente. Un’inquietudine crescente, non sempre dichiarata, ma che è evidente per chi conosce i colombiani della Comunità. Loro non lo dicono, di animo ne hanno da vendere, ma noi li vediamo. La sentiamo anche noi volontari di Operazione Colomba questa inquietudine, ce lo diciamo, quasi a bassa voce, con il timore e la vergogna che certe cose a nominarle poi possano succedere per davvero in un Paese dove la realtà non smentisce le paure, ma anzi le alimenta e le avvera.
E questo era poco prima.

Le minacce alla Comunità di Pace del resto sono note, sono pubbliche. Da mesi. Da anni. Pagine e pagine di denunce che descrivono l’avanzata paramilitare, descrizioni giorno dopo giorno dei pedinamenti, delle violenze, delle richieste insistenti e continue negli ultimi mesi di sapere dove sono German e Gildardo, chi fa parte della Comunità di Pace, dove vivono i suoi membri. Le violazioni degli spazi comunitari con armi e volti incappucciati, le intimidazioni, le minacce. “Dobbiamo sterminarla questa fottuta Comunità di Pace”. “Chi denuncia muore con la bocca piena di vermi”. “Non potranno andare in giro sempre accompagnati dagli internazionali, prima o poi li troveremo da soli”.
E anche questo era prima.

Era già prima da molto tempo. Noto. Come anche il piano di uccidere German, descritto per filo e per segno nell’ultima denuncia pubblica della Comunità di Pace uscita il 22 di dicembre. Eppure non è servita. Non è servita a impedire gli eventi, l’attacco avvenuto nel cuore e al cuore della Comunità di Pace il 29 dicembre.

Quello che invece è servito, è essere stati capaci, ancora una volta, di essere comunità. Un gruppo di persone che lottano e resistono da 20 anni perché credono in qualcosa che li tiene insieme, valori di vita e non di morte. L’essere stati capaci di non fuggire davanti alla violenza, ma di unirsi e correre in soccorso di chi era minacciato. Costi quel che costi. Perché il bene è più forte della paura. Per questo German e Roviro sono vivi, non sono stati lasciati soli. Sono state due bambine a dare l’allarme. Pochi secondi dopo è arrivata tutta la Comunità di Pace, e noi con loro.

Questo ha salvato German e Roviro. Questo ha permesso di disarmare e immobilizzare per lo meno due degli aggressori. Mentre qualcuno della Comunità già puntualizzava che fossero trattati bene “perché noi non siamo come loro, noi non agiamo come loro”. Come si è sparsa la notizia di quanto accaduto, tutta la gente della Comunità è scesa anche dalle veredas più lontane e si è ritrovata nella lunga notte di veglia fino alla consegna, il giorno successivo, dei due paramilitari al viceministro degli interni. Caso unico in tutta la Colombia quello della Comunità di Pace, in cui il fiume di sangue, delle ormai centinaia di leader sociali e difensori dei diritti umani uccisi nel Paese da dopo la firma degli Accordi di Pace, ha preso un corso diverso. E non solo si è evitato un omicidio, ma i responsabili sono stati consegnati allo Stato colombiano.

Profonda tristezza e sconcerto poi che, anche questa volta, si sia persa l’occasione di fare giustizia, rilasciando i due aggressori il giorno seguente. In ogni caso la Comunità di Pace la sua parte l’ha fatta, come sempre, con coraggio e dignità, nel rispetto della vita umana. Di tutti. Compresa quella dei carnefici. E continuerà a farlo.

Un tempo denso, fatto di paura, di lacrime, di grida e di silenzi, ma anche di coraggio e di tanta forza trasmessi, come per contagio, attraverso tutti gli abbracci che ci siamo scambiati in quei momenti interminabili e nei giorni successivi. Uomini e donne, adulti e bambini. Così è andato questo mio tempo in Colombia, questa volta, e la forza di quegli abbracci e il bene di quelle lacrime me li sento ancora addosso. Qualcuno della Comunità prima di partire mi ha detto “Mi dispiace che questa volta tornerai a casa con la paura che ci siamo presi”. Ho risposto: “No. La paura e la rabbia le lasciamo ai paramilitari, io torno a casa con la vostra forza e i vostri sorrisi. Noi siamo più forti”.

AleZ

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