La sorpresa più grande sono le terme, di cui nessuno sospettava l’esistenza. Ma dal punto di vista degli archeologi il colpo di fortuna migliore sono gli immondezzai, tecnicamente “i butti”, quelle discariche dove i materiali più vari raccontano intere epoche. Con monete (anche false), ceramiche, vetri e gli scarti dei cibi che fotografano le mense di mezzo millennio fa.
Ieri sera al Lapidario dei Musei comunali di Rimini è stato raccontato, almeno in parte, cosa è emerso dagli scavi di piazza Malatesta effettuati dal 2020 in poi. Sedici archeologi ancora al lavoro, perchè le ricerche non sono terminate. Coordinati dalla dottoressa Annalisa Pozzi della Soprintendenza di Ravenna, le squadre di AdArte erano state incaricate di verificare cosa celasse quella fetta del cuore di Rimini, mai seriamente indagata, in vista dei lavori “felliniani” che daranno un nuovo aspetto a tutta l’area fra Castel Sismondo, il Teatro e il cinema Fulgor.
E stata Giulia Bartolucci di AdArte a spiegare nei dettagli alcuni dei ritrovamenti. I più inattesi, appunto, quelli di due vani che hanno tutta l’aria di essere ambienti riscaldati a uso termale. Da che Rimini non aveva mai restituito reperti di questo tipo, nel giro di poco tempo ne sono riapparsi due: quello di via Melozzo da Forlì il più sorprendente. Ma anche in piazza Malatesta, ecco le tipiche condutture, i pavimenti appoggiati su colonnette per lasciare intercapedini dove circolava l’aria calda, il forno per produrla. I due ambienti sono nel lato della piazza a fianco del Teatro, di fronte a quel che resta di Santa Colomba. Ancor presto per datare con precisione queste “spa”, ma si tratterebbe comunque di un’epoca piuttosto tarda, fra la metà del V e gli inizi del VI secolo. Non grandissimi impianti, forse le “saune” di prvati cittadini. Siamo comunque nel periodo “bizantino” di Rimini. Significativo che qui tre frammenti di ceramica su quattro siano stati riconosciuti come provenienti dall’oriente. Forse esiste anche un terzo ambiente termale, ma ancora non si è riuscito ad approfondirlo.
Mentre per ora resta mistero fitto su un edificio con abside, largo almeno una decina di metri. Ancora terme? O qualcosa che ha a che fare con la primitiva cattedrale di Santa Colomba? Del primo duomo di Rimini non sappiamo esattamente la data di fondazione, si ipotizza fra il IV e il VI secolo. La tradizione vuole che fosse andata a sostituire un tempio dedicato a Ercole. Ma si trovava nel punto esatto dove sarebbe stata ricostruito e riconsacrato nel XII secolo? Ancora tutto da verificare.
E’ stato invece scoperto che aspetto doveva avere piazza Malatesta prima della costruzione di Castel Sismondo iniziata nel 1437. Le fonti scritte riferiscono che Sigismondo per far largo alla sua sontuosa residenza fortificata fece radere al suolo il Vescovado, il Battistero della Cattedrale, forse un convento di S. Caterina e un intero quartiere: quello delle case della sua stirpe, che vi si erano aggregate dal ‘200 in poi. Fra queste, la residenza dei Malatesta di Pesaro e quelle dei Belmonti delle Caminate, famiglia a lungo alleata dei signori e poi caduta in disgrazia ai primi del ‘400.
Tutto ciò si sapeva, ma solo ora dopo 600 anni quelle case tornano alla luce. Un intero quartiere, con palazzi che guardavano una via, Contrada San Colomba, certamente una delle più importanti della città avendo sull’altro lato il duomo. Ecco riemergere le muraglie imponenti di questi edifici che dovevano avere diversi piani, portici, cortili. Ecco una poderosa “casa-torre” con murature spesse oltre un metro. Ecco soprattutto, per la delizia deigli archeologi, i “butti”, almeno quattro.
A volte erano semplici buche, ma in un quartiere signorile come questo i rifiuti si gettavano in apposite strutture con volte in mattoni, autentiche “isole ecologiche” di allora. Ambienti semi-sotterranei dove gente ricca come i Malatesta non gettava solo i cocci del vasellame rotto, ma interi “servizi da tavola” ancora integri ma ormai passati di moda. I frammenti hanno infatti consentito di ricostruire una spledida serie di brocche decorate del Tre e Quattorcento dove spiccano le iniziali dei signori. Ne sono state ricomposte praticamente per intero ben 39 e di moltissime altre restano pezzi significativi.
Fra i rifiuti anche una moneta fiorentina del ‘400: un falso di allora, a quanto sembra. Il sedicente fiorino ha infatti solo una leggera patina d’oro mentre in realtà è di bronzo. Poi un sigillo in piombo della Repubblica di Venezia posteriore al 1261, oltre a una quantità di frammenti di ogni materiale più o meno prezioso. Mentre fra i materiali sparsi di ogni epoca, ritrovati un po’ ovunque, le monete vanno dai piccoli “nummi” bizantini in bronzo a un conio di Teodorico, con il re dei Goti raffiguaro su un lato e la lupa di Roma sull’altro, a voler rappresentare il suo sogno di un regno d’Italia dove Latini e Germani potessero vivere assieme e collaborare in pace.
Ma sono gli avanzi dei cibi quelli che raccontano di più su come vivevano i signori nel loro esclusivo quartiere. Mangiavano tanta carne, più di pecora e capra che di maiale, ma senza disdegnare il manzo. Ma anche tanto pesce, sia di mare che di acqua dolce, molluschi, ostriche, lumeche, poveracce e capesante. Nessuna traccia invece di equini: cavalli e asini non finivano in quelle cucine. Ritrovati anche diversi scheletri di gatti, ma sebbene il felino non fosse estraneo alle diete dei nostri antenati, specie in tempi di penuria, in questo caso si ritiene che i poveri animali fossero finiti nelle “isole ecologiche” a caccia dei topi che infestavano, non riuscendo più a ritornare in superficie.
Nessuna sorpresa invece nel ritrovare delle sepolture: era già successo in passato e la presenza della cattedrale le dava praticamente per scontate. Ne sono state scavate 22 in due nuclei distinti; uno già post-medievale comprendente un ossario e una cassa in mattoni, l’altro invece molto più antico risalente all’alto medio evo.
Inoltre si è individuata da subito una fornace temporanea servita con ogni probabilità a fondere una campana per la Cattedrale. Forse quella citata dai documenti del Quattrocento pubbicati da Oreste Delucca. In seguito sul posto fu scavata una fossa da grano. Una seconda fornace era servita a produrre calce, mentre di altri ambienti sicuramente produttivi al momento non si può dire di più.
Spostandosi verso Castel Sismondo, si è indagata la porta con ponte levatoio che si apriva sulla città e la contro-controscarpa del fossato che circondava il maniero. Non ne è rimasto gran che, dopo le demolizioni del primo Ottocento quando il fossato stesso fu riempito con le macerie dei bastioni esterni. Addirittura, in certi punti la controscarpa non è neppure stata ritrovata, tanto le distruzioni e le spoliazioni ottocentesche erano andate a fondo. Meglio conservato un tratto di mura verso via Poletti. In corrispondenza del ponte levatoio e del suo “batti-ponte” dovrebbe sorgere la “lama d’acqua” a forma di prua del Rex che tante polemiche ha suscitato. Necessita di un imponente vano tecnico sotterraneo che dovrà essere piazzato a ridosso della controscarpa. Tutto bene per la Soprintendenza, che però in altre occasioni ha fatto scaturire una condotta fognaria in bella vista dalle mura malatestiane pur di non intaccarle sottoterra.
Ieri sera praticamente nulla si è detto del settore opposto della piazza, dove è riemerso il “praticabile” della Fontana della Pigna. La galleria costruita nell’Ottocento per la manutenzione della condotta che porta l’acqua dalla sorgente in via Dario Campana a piazza Cavour, alta circa 1,80 metri e con volta a botte, per un buon tratto è stata tagliata senza tanti complimenti e poi richiusa con il cemento, perchè il progetto della piazza in quel punto prevede quote più basse delle attuali. Poteva essere l’occasione per mettere sotto gli occhi dei riminesi un percorso che ha dato origine a tante leggende, ma il progetto è il progetto e bisogna andare avanti.
Stefano Cicchetti