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Sui marciapiedi di Rimini schiave in vendita e l’oscenità di chi compra, oggi come ieri

In un’estate lontana, più di un trentennio fa, iniziavo il mio apprendistato giornalistico nella redazione riminese di un quotidiano. Io e la mia ancor più giovane collega Francesca Carvelli ci sentivamo croniste d’assalto, e dedicammo una delle nostre prime mini-inchieste allo sfruttamento della prostituzione in Riviera.

Allora fra Rimini e Riccione «lavoravano» molte ragazze nigeriane, arruolate in patria da «madam» senza scrupoli con la prospettiva di un lavoro in Italia e poi schiavizzate dai protettori, con i debiti, i pestaggi, le minacce di ritorsioni sulla famiglia e anche con riti magici. Raccogliemmo testimonianze di prostitute e di operatori delle associazioni che cercavano di aiutarle, e insomma, per essere due principianti facemmo un lavoro discreto.

In questi giorni mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, leggendo il pezzo del Corriere Romagna sul grande ritorno della prostituzione di strada. Le stesse storie di inganni, ricatti, violenze, minacce ai familiari. Niente sembra cambiato, tranne le nazionalità: non ci sono più le nigeriane, probabilmente spostate in altre zone, prevalgono le ragazze dei paesi dell’Est, Romania, Albania, Bulgaria.

Agganciate col miraggio di un lavoro, oppure – agghiacciante innovazione – scaraventate sul marciapiede da fidanzati che le cedono ai malavitosi. A quanto pare le ordinanze anti-prostituzione emanate dal Comune e reiterate negli ultimi anni (multe per lucciole e clienti pizzicati a offrire o chiedere prestazioni sessuali a pagamento) non hanno avuto un gran successo. La tratta di donne – perché questo è, nella maggior parte dei casi – non si debella con le contravvenzioni (con lo sconto se pagate entro 60 giorni: un margine più ampio di quello previsto per le infrazioni al codice della strada). Bisogna combattere le organizzazioni criminali che riducono le donne in schiavitù schiacciandole con la violenza fisica e psicologica.

La prostituzione è un argomento quanto mai divisivo: c’è chi ritiene di per sé abietto e disumano vendere servizi sessuali e considera sempre e comunque vittima la persona (specie se donna) che esercita quel mestiere, anche se non è la sua ultima risorsa di sopravvivenza ma una scelta personale, e non c’è il ricatto di un protettore. In questa prospettiva il cliente è sempre uno sfruttatore, uno che si approfitta della debolezza e della vulnerabilità di una donna.

Si tratta di rispettabili giudizi di carattere etico o religioso, che non sono condivisi da tutti. Non solo dai fan del sesso a pagamento, ma anche da una parte delle femministe, che ritengono che un essere umano, uomo o donna, possa disporre liberamente sia del proprio corpo che del proprio denaro. Ci sono giovani donne colte ed emancipate che vendono prestazioni sessuali perché preferiscono guadagnare bene lavorando poche ore al giorno piuttosto che sgobbare praticamente gratis in uno studio legale o in un ufficio, dove oltretutto sono esposte ad altri tipi di ricatti sessuali da parte dei loro boss. Quanto ai pericoli, le cronache ci dicono che anche una moglie che disobbedisce a un marito geloso e autoritario rischia di essere picchiata o addirittura uccisa.

Ma questi argomenti «laici» non possono essere usati a proposito delle giovani schiave che battono i marciapiedi di Rimini per foraggiare delinquenti che le picchiano a sangue se l’incasso non è sufficiente e arrivano a scacciare gli operatori che vogliono offrire alle ragazze assistenza e supporto. Gli uomini che comprano le loro prestazioni non possono non sapere chi e cosa le ha portate sul marciapiede. Ed è la sottintesa complicità con gli schiavisti il vero atto osceno in luogo pubblico.

Lia Celi

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