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“Sigismondo un perdente, ma grande come Lorenzo il Magnifico”

Ma chi erano questi Malatesta? E chi si credevano di essere? Le risposte a queste domande diventano ancora più interessanti, se a fornirle è un discendente di una famiglia ben più antica dei Malatesta e dei Montefeltro: Tommaso di Carpegna Gabrielli Falconieri, i cui antenati erano quei Conti di Carpegna già prima del Mille feudatari di gran parte di quelle terre poi contese per secoli dalle due famiglie rivali. Ma, soprattutto, Tommaso di Carpegna è docente di storia medievale all’università di Urbino.

Una delle ipotesi sulle origini di queste famiglie, è che provenissero tutte da un unico ceppo, quello dei Carpegna, appunto. È un’ipotesi che ha un fondamento?

«Sì, ha un fondamento. Anche l’araldica suggerisce l’esistenza di legami: nello stemma dei Carpegna, come in quelli dei Montefeltro, dei Malatesta ma anche dei Della Faggiola di Uguccione, si ritrova sempre lo stesso motivo delle bande diagonali. In questa materia le coincidenze non sono mai casuali, gli stemmi sono ideogrammi, racconti delle storie famigliari. Ed era frequente che diversi rami di una stessa famiglia colorassero in modo differente lo stesso motivo araldico. Se si aggiunge il fatto che queste famiglie appartengono alla stessa area geografica, non a torto è stata formulata la tesi su di una loro comune origine. I Malatesta, in particolare, con la loro ascendenza pennese, rientrano proprio nell’alveo dei feudi originari dei Carpegna».

Da sinistra: gli stemmi di Carpegna, Montefeltro, Malatesta, Della Faggiola

Da sinistra: gli stemmi di Carpegna, Montefeltro, Malatesta, Della Faggiola

Origine comune, ma poi oltre due secoli di scontri. Come mai?

«Le tensione fra Malatesta e Montefeltro, che a metà Quattrocento arriverà al calor bianco e che porterà alla sconfitta di Sigismondo, aveva infatti origine almeno due secoli prima da famiglie molto simili se non imparentate, come abbiamo visto, con interessi patrimoniali e politici sulla stessa area geografica. E questo da subito. C’era un conflitto potenziale già nel ‘200, che poi è esploso abbastanza presto, nonostante matrimoni e alleanze. Quando Malatesta da Verucchio si impadronisce di Rimini, a San Marino c’è Guido da Montefeltro che ha provato ad impedirglielo e che  accoglie i ghibellini riminesi cacciati dalla città».

E con i Carpegna che rapporti ebbero i Malatesta?

«Molto stretti. Fin da quando Rimini, nel 1248, abbandona la parte ghibellina, sono i Malatesta e i conti di Carpegna a dar vita ad un governo guelfo. Da allora in poi i Carpegna si sono dovuti barcamenare molto a lungo, con una politica di cuscinetto fra i poteri molto più forti di Malatesta e Montefeltro, o anche Firenze. E per parecchio tempo sono stati aderenti dei Malatesta più che dei Montefeltro. Erano dalla loro parte ancora al tempo del tracollo di Sigismondo, nella seconda metà del Quattrocento. E ci sono dei matrimoni, ci sono dei Carpegna che diventano capitani dei Malatesta. D’altra parte, la discendenza dei Montefeltro dai Carpegna è addirittura provata da un documento, pubblicato anche dallo storico riminese Luigi Tonini, che è il giuramento di cittadinanza di un conte di Carpegna e di un conte di Montecopiolo, cioè un Montefeltro. Entrambi giurano il “cittadinatico”, come si diceva allora, al Comune di Rimini e mettono a sua disposizione i loro castelli. Quello che è interessante è che nel documento questi castelli non sono distinti, ma sono elencati uno dietro l’altro, come se dal punto di vista dei Riminesi ancora nel 1220 appartenessero alla stessa famiglia. E cioè quella dei signori della pieve di Carpegna, che comprendeva anche Monte Copiolo e Pietrarubbia».

La rocca di Pietrarubbia

La rocca di Pietrarubbia

Sono storie antiche, hanno un riverbero nel mondo contemporaneo?

«Il punto è che trattiamo di grandissimi personaggi. Sigismondo sicuramente equivale a Federico di Montefeltro: è il suo nemico e dunque il suo alter ego. Tant’è vero che li conosciamo entrambi dipinti dal grandissimo Piero della Francesca. Ritratti addirittura “affrontati”, sempre per restare nel linguaggio dell’araldica: uno guarda verso destra, l’altro verso sinistra ed entrambi di profilo; una simmetria impressionante. Questi due sono fra i personaggi più importanti che abbia mai prodotto l’Italia, senza tema di esagerazioni. Perché non va dimenticato cosa rappresenti tutt’ora per la cultura mondiale l’umanesimo italiano del Quattrocento».

Sigismondo e Federico due facce della stessa medaglia?

«E che medaglia. Poi, fra i due ci sono certo le differenze, a iniziare da quei ritratti. E si detestavano di tutto cuore. Però le loro politiche, anche culturali, sono quanto di più simile. Sono due grandissimi condottieri, ed entrambi uomini di lettere e di costruzione. Tutto l’ideale della grandezza dell’uomo del Rinascimento è costruito in gran parte su questi due personaggi, senza dubbio alla pari di Lorenzo il Magnifico».

Però a differenza degli altri, Sigismondo alla fine perde tutto…

«Già, Sigismondo è un perdente, per quanto “il migliore della storia” come disse Ezra Pound. Ma c’è una grandezza anche nel perdere. Molti dei grandissimi alla fine non sono riusciti nei loro progetti, pensiamo solo a Federico II di Svevia. Ciò non offusca la loro grandezza. Anzi, in qualche modo la mette sotto una luce più tragica. È con questi personaggi che nasce la nostra idea di uomo. E in qualche misura di “super uomo”, come idealizzazione tardo-ottocentesca, nietzschiana, quella che poi è finita male, con le derive fasciste che conosciamo. Ma sempre si è partiti dall’idea del Principe, del gran signore rinascimentale italiano».

Quando si parla di super uomo è inevitabile pensare a un altro di queste parti, un certo Benito Mussolini. Sotto questo punto di vista c’è forse anche un po’ di una certa “romagnolità” in Sigismondo?

«Non saprei dire se c’è una romagnolitas che influisce su figure tanto lontane. Per come lo immagino io, Sigismondo non penso affatto fosse un uomo di appetiti popolari. Non era uno che inseguiva il consenso delle masse e su quello si sosteneva, né tanto meno nella sua ideologia si ritrova qualcosa di “proletario” come invece nei proclami del fascismo.  Sigismondo era un uomo estremamente raffinato, non me lo vedo proprio come il romagnolo alla buona né come un demagogo. È invece uno che manda messaggi culturali molto elitari, fortemente allegorici, ermetici, difficilmente comprensibili al popolo e anzi volutamente oscuri a tutti tranne che per pochi. Pensiamo alla simbologia dell’elefante: che è splendida, ma certamente non è con quella che il signore vuol far capire al suo popolo come pensa il potere».

L'ingresso della Biblioteca Malatestiana di Cesena

L’ingresso della Biblioteca Malatestiana di Cesena

Eppure Sigismondo pare sia stato amato dal suo popolo. Per lo meno, durante la sua signoria Rimini non gli si è mai ribellata, nemmeno nei momenti più difficili. Come si spiega?

«Certamente era un personaggio carismatico, questo sì. E conosceva bene anche il mestiere di amministrare. Ma poi, forse abbiamo sempre sottovalutato la presenza di Isotta. Ecco un personaggio altrettanto importante, che non si limita certo ad essere un’astrazione, un soggetto idealizzato per elogi cortesi. Lei invece era una di quelle grandissime signore del Rinascimento che effettivamente hanno governato gli stati mentre i loro mariti, come nel caso di Sigismondo, era quasi sempre assenti. Sono donne di potere: guardiamo solo a casi famosi, ma purtroppo distorti dai clichè, come Lucrezia Borgia. Solo di recente Lucrezia viene vista sotto la giusta luce, in base ai documenti. E invece di una donna ai confini della perversione, avvelenatrice, incestuosa, esce il ritratto di una donna di governo, per quanto giovanissima. Una donna che si occupa della bonifica del ferrarese, che sa scrivere rapporti in cifra al marito per tenerlo al corrente dei fatti militari, che insomma tiene saldamente in mano le redini della signoria. Ma sempre per restare in Romagna, pensiamo a Cia degli Ordelaffi, o degli Ubaldini che dir si voglia, una che tiene da sola la piazza di Cesena durante un assedio terribile, e con che piglio: personaggio interessantissimo. Sicuramente anche a Isotta si può attribuire un ruolo di questo genere».

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Cosa resta oggi di quelle epoche?

«Tanti aspetti, anche curiosi. Mi vengono in mente certe contrapposizioni fra marchigiani e romagnoli, che hanno trovato come simboli di rappresentazione proprio Federico e Sigismondo. Mi fa anche abbastanza ridere che quando giro per il Montefeltro ne trovo una parte che si fa chiamare “Terre  Malatestiane” e un po’ più in là viene esaltata la componente feltresca. E mi ricordo, proprio negli anni più infervorati che hanno portato il passaggio dei sette comuni della Valmarecchia dalla provincia di Pesaro a quella di Rimini, si sentivano anche questi discorsi, che tiravano in ballo anche Malatesta e Montefeltro. Come se in qualche modo si fosse riprodotto lo scontro fra i due campioni, l’uno di Urbino e l’altro di Rimini. E come se quelle battaglie del Quattrocento siano state in qualche modo rispolverate per raccontare quello che stava succedendo nel mondo contemporaneo, quando poi sappiamo benissimo che non esiste nessun nesso. Ma simbolicamente, ideologicamente, sono figure che fanno molto comodo. Fra l’altro, non mi pare che poi da quelle operazioni siano arrivati dei gran vantaggi:  Casteldelci è lontana adesso da Rimini quanto era lontana prima da Pesaro, mentre Novafeltria forse ha perso anche qualche vantaggio che le derivava proprio dall’essere distante dal capoluogo amministrativo».

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A parte le suggestioni di campanile, quanto la gente è interessata ancora a Malatesta, Montefeltro, Carpegna e le loro vicende?

«Le faccio un esempio molto attuale. Dal 15 al 17 giugno, a Gradara faremo un convegno intitolato “Il medio evo fra noi”. Per dare la misura dell’interesse suscitato, basti dire che è giunto alla quarta edizione. Quest’anno, dandoci il titolo “Infinito presente”, raccontiamo tutti quelli che sono i sogni, le reinterpretazioni del medio evo nel mondo contemporaneo. Perché ce lo raccontiamo per esempio così tanto al cinema, nei libri e in televisione, perché lo sogniamo, perché ricostruiamo Gradara. E perché guardiamo a personaggi come Sigismondo e Federico e ci sforziamo di capire qual è il loro senso nel mondo contemporaneo».

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E lo abbiamo capito?

«Ecco, su questo mi permetto di parlare da uomo di cultura e anche delle istituzioni, dal momento che insegno in un’università. Ora, benissimo fare i loghi, “Terre malatestiane” e quant’altro, vendere turisticamente il territorio sfruttando il marchio: tutto utile e legittimo. Però, è assolutamente indispensabile avere consapevolezza che noi la memoria la dobbiamo tutelare e conservare. Cioè: di fonte a questi personaggi, noi dobbiamo avere l’umiltà e anche la capacità di conservare nel mondo migliore quello che loro ci hanno lasciato. E cosa ci hanno lasciato? Sigismondo, il Tempio Malatestiano, certamente. Ma ci ha lasciato anche l’archivio di Stato con il suo tesoro di documenti. E anche la Biblioteca di Cesena, anche se era del fratello, ma che fa sicuramente parte del modo di pensare la cultura presso una corte malatestiana. Anche nel segno della grandezza di questi personaggi, io credo che la tutela del patrimonio culturale sia qualcosa che vada sempre affermata e difesa. Non è un discorso che va contro lo sfruttamento commerciale, anzi le due cose possono andare in sinergia. Però non si può pensare di celebrare Sigismondo Pandolfo Malatesta e magari allo stesso tempo ridurre a zero i finanziamenti per le biblioteche, oppure lasciarle senza direttore per anni, per dire. Allora sì che cadiamo nel paradosso».

A proposito di Terre Malatestiane, proprio in questi giorni a Roma sono protagonisti di un’iniziativa che vuol far conoscere i 900 borghi d’Italia. Queste, come anche le classifiche, le trasmissioni televisive, sono iniziative che servono oppure restano solo gare fra cartoline, senza approfondire il valore vero di questi luoghi?

«È proprio questo il punto. Queste sono iniziative che non necessariamente si scontrano con una conoscenza più approfondita e più consapevole. Anzi ben vengano, sono molto importanti proprio perché funzionano a livello mediatico. Ma non ci i può limitare a questo, è necessario ma non è sufficiente. Ora che abbiamo riconosciuto il valore di questi luoghi, coerentemente dovremo investire nella loro conservazione».

Stefano Cicchetti

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