Il mio amico Gianni Ruzzier – sì, proprio lui, “il monarchico Ruzzier” – sostiene che quando insorga un malanno fisico o si alteri quacosa del tuo “sentire interiore”, prima ancora di cercarne la ragione e il rimedio, sia consigliabile… «fare un controllino all’anagrafe».
Dev’essere proprio per questo che più mi addentro nella terza età e più sento aumentarmi una “cativeria” (con una sola t, non è un errore) fatta di irritabilità e intolleranza, di cui dovrei pentirmi e anche un po’ vergognarmi, ma non ci riesco.
Naturalmente c’è una gradazione di virulenza in tutto questo, che va dall’avversione sprezzante, all’ironia sfottente, alla penosa commiserazione.
Un istinto di irrefrenabile aggressività ritorsiva mi è insorto, come penso a tanti, di fronte alla violenza criminale consumatasi qualche giorno fa a Napoli, allorché sotto la direzione strategica di camorristi, neofascisti, teppisti da stadio e aspiranti terroristi dei “centri sociali”, è stata messa a ferro e fuoco la città: una vigliaccata che ha trovato e sta trovando emulazione anche da altre parti.
Ecco, non ho remore a ritenere sacrosanto che all’ospedale, anziché i sette agenti feriti, ci dovesse andare il più alto numero possibile di quei delinquenti, trattati dalla polizia come meritavano.
Mi sembra poi sorprendente che gli arrestati siano stati soltanto due, oltretutto già condannati per direttissima a pene poco più che simboliche. È dunque auspicabile che il loro numero cresca di gran lunga in conseguenza delle indagini, le più “agguerrite” possibili.
Bisogna riconoscere che sia l’arroganza ducesca di De Luca, sia l’opportunismo cincischiante del “pupone” De Magistris, hanno dato una bella mano a far sì che tanti “non delinquenti” si accodassero ai malavitosi, i quali avevano bisogno dell’apparenza dei numeri per legittimare come “sollevazione popolare” l’orrenda ferita che avrebbero di lì a poco inferto a Napoli. Con buona pace del vacuo oracolo chiacchierino di Roberto Saviano, che su “La Stampa” è arrivato a minimizzare il ruolo avuto dalla camorra.
Di ben altro tenore sono le “carinerie” che sabato mi ha ispirato un breve transito da Piazza Cavour durante la seduta spiritica messa in scena per evocare “lo spirito della Costituzione”, ferita a colpi di mascherina.
Proprio per questo mi veniva da ridere vedendo che quelle poche decine di free-vax, no-mask, no-vax e compagnia riluttante, portavano l’odiata mascherina in faccia, sia pure con molti nasi che restavano scoperti, in ossequio a uno dei più qualificanti obiettivi di quel raduno: «respirare a naso libero». Ne è stato declamato anche un altro, che però non sono riuscito a tradurre: «Non vogliamo vivere da morti, siamo disposti a morire, ma da vivi» (e giù toccamenti…)
Tutti, dunque, a rispettare con pecoresca obbedienza l’obbligo alla mascherina imposto dalla locale autorità statale, quale condizione per poter svolgere la manifestazione contro lo Stato… che li obbliga a portare la mascherina. Ma si può…?
E che dire dei tanti che hanno disertato l’allegro appuntamento, spaventati dalla pioggia? Ma come, non vi fa paura la possibilità di prendervi il coronavirus, che anzi considerate un diritto costituzionale poter trasmettere agli altri, e invece vi terrorizza l’idea di un banale raffreddore, per curare il quale nessuno vi imporrà mai il vaccino?
Più di un relatore ha diffidato dal continuare a chiamarli «negazionisti» , assicurando che in realtà loro sono «affermazionisti», o al massimo «dubitazionisti» (sarà forse un caso che facciano tutti la rima con “sbatticazzisti”?).
A dire la verità, mentre mi sembra normale che a questi festival della superstizione si diano convegno avvistatori di ufo, terrapiattisti, smascheratori di scie chimiche e portatori di altre tipologie di cocalaggine, mi fa un po’ effetto trovarvi ogni tanto anche qualche avvocato.
Qui i casi sono due: o il furbacchione ha capito che prima o poi la dabbenaggine di queste anime sempliciotte gli procurerà del lavoro; oppure lui che la conosce a menadito, deve per favore spiegarci in quale suo articolo la Costituzione vieterebbe l’obbligatorietà all’uso della mascherina, e magari anche quella alle cinture di sicurezza e al rispetto del divieto di sosta.
Una cosa che non ho capito è perché a dar lustro a quella “vaccata negazionista” non sia stato invitato pure il bofonchiante Prof. Alessandro Meluzzi, conosciuto per i suoi frequenti deliri nel mondezzaio di Rete 4, oltre che su Libero più altre discariche giornalistiche e nel corso di convegni dei neofascisti.
E sì che lui in materia la sa lunga: «Il terrore seminato sull’epidemia da coronavirus è ingiustificato ma sarà strumentalizzato per sopprimere le elezioni e sospendere la democrazia (…) e ha una data termine che vi annuncio: che è quella delle elezioni americane. Se Trump non sarà rieletto, questa situazione si cronicizzerà».
E per rendere ancora più evidente il suo disgusto per chi teme il covid-19, ha fatto girare questa graziosa foto, con cui ironizza sulla tragedia di Auschwitz.
Ma se anche l’invito gli fosse arrivato, quel tromboneggiante psichiatra di se stesso l’avrebbe probabilmente declinato, essendo da alcuni giorni impegnato a “cazziare” Papa Francesco per la sua apertura al diritto delle coppie gay ad essere una famiglia. Per questo Francesco è «il peggior Papa della storia», anzi «non è un vero Papa» e grazie a lui «Satana arriverà sotto forma del buonismo».
Poi c’è un bel tozzone finale a Bergoglio: la citazione di Papa Ratzinger, secondo cui «nozze gay e aborto sono segni dell’Anticristo».
Quando si dice le coincidenze imbarazzanti! Quasi in contemporanea con l’aver appena insultato la memoria delle vittime dello sterminio nazista, Meluzzi che fa? Non trova di meglio che farsi scudo del pensiero di Benedetto XVI, che per carità è stato un degnissimo Pontefiche, nonostante negli anni in cui ad Auschwitz c’era chi entrava nelle camere a gas, lui si fosse arruolato nella Gioventù hitleriana, sia pure «contro la sua volontà, per non ricevere sanzioni pecuniarie sulle tasse scolastiche del Gymnasium», come apprendiamo da Wikipedia.
Meluzzi ha ascendenze riminesi e si dice abbia uno studio a Rimini. Quando un personaggio di tale stazza mantiene una così continuativa presenza in una città non sua, che lo ospita, non di rado quest’ultima gli conferisce la cittadinanza onoraria. Io proporrei una piccola innovazione: assegnare ad Alessandro Meluzzi la “cittadinanza disonorevole della Città di Rimini.”
Nando Piccari