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Trivelle, Bertani (M5S): “Non danno lavoro, immotivato l’entusiasmo di Confindustria Romagna”

Pubblichiamo l’intervento del consigliere della Regione Emilia Romagna Andrea Bertani (Movimento 5 Stelle) in merito alla posizione di Confindustria Romagna sula sentenza del Consiglio di Stato sulle trivelle in Adriatico.

«Due anni fa si svolgeva il cosiddetto referendum sulle trivelle in mare, osteggiato dal PD e da Confindustria (unite nella lotta) come una battaglia che, una volta vinta, avrebbe consentito la ripresa occupazionale ed economica nel settore delle estrazioni di idrocarburi, in particolare in Emilia-Romagna. Le scelte del vecchio Parlamento e dei vecchi Governi, ed il risultato del referendum (dove prevalsero abbondantemente i No, ma la cui affluenza fu al di sotto del 50), hanno consentito la ripresa delle ricerche e delle estrazioni in Adriatico. Ma, ovviamente e purtroppo, non hanno consentito la ripresa del lavoro e dell’economia. Per questo sono senza motivazione e senza prospettive le parole di Confindustria Romagna che in questi giorni accoglie con grande favore la sentenza del Consiglio di Stato contro i ricorsi avanzati dalle Regioni Abruzzo e Puglia, parlando del “più importante distretto nazionale di Oil&gas, che da decenni convive con le comunità locali e rappresenta uno dei principali comparti produttivi del territorio”, con sede in Romagna. L’economia e l’occupazione nel settore e nel distretto, infatti, sono ferme non perché qualche sindaco locale o qualche presidente di Regione più indipendente del nostro abbia tentato dei ricorsi, ma perché l’interesse economico degli idrocarburi in Adriatico è largamente minore di quello dell’investimento nelle energie rinnovabili. Come sanno bene molte imprese del settore e molti Governi, in Europa e nel mondo, che stanno investendo proprio sulle rinnovabili. Basti pensare che l’Unione Europea sta lavorando a programmi finalizzati a rendere disponibili nel giro di pochi anni infrastrutture per la ricarica elettrica degli autoveicoli, compresi i mezzi pesanti, diffuse sull’intero continente. Basti pensare che in Norvegia, il maggiore produttore europeo di petrolio, il fondo sovrano norvegese, sta disinvestendo dal fossile e andando verso le rinnovabili perché le vendite petrolifere e i rendimenti sul capitale investito sono in calo. Negli stessi provvedimenti dell’Unione Europea carburanti come il gas o il metano rivestono un ruolo sempre meno rilevante all’interno delle fonti energetiche alternative, mentre vengono incoraggiati sempre più le scelte dirette ad investire sulle rinnovabili (fra le quali ovviamente non si trovano i marginali giacimenti fossili) sul piano della ricerca, della formazione professionale, degli investimenti infrastrutturali e produttivi e dell’occupazione. Insistere sulle ricerche e le estrazioni di idrocarburi, in particolare dove i giacimenti sono limitatissimi – in sé e rispetto ai fabbisogni energetici nazionali – non è una seria politica economica o ambientale o energetica, ma semplicemente archeologia industriale, dalla quale non verrà un euro di fatturato o un posto di lavoro in più. I dati, anche dopo il fallimento referendum di due anni fa, parlano oggi di imprese che chiudono, di investimenti che non partono, di posti di lavoro progressivamente perduti. Avvenimenti legati al fatto che l’Oil&Gas non è il futuro dell’industria energetica, ma il passato e che anche il presente è fatto sempre più di rinnovabili. Attardarsi sulle sentenze e inventarsi sempre nuovi nemici (questa volta per Confindustria sono gli amministratori, come i sindaci, eletti democraticamente da cittadini, che si stanno muovendo contro nuove piattaforme al largo delle nostre coste,) non tutela l’occupazione, non crea opportunità di investimento e di lavoro, non consente fatturato, ma contribuisce a farci perdere progressivamente posizioni, a diventare sempre più marginali e a perdere il treno dell’innovazione».

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