La voce di Sergio Zavoli è inconfondibile. Lo è quando parla e più ancora, forse, lo è quando scrive. Lo è soprattutto quando scrive poesie. Non mi riferisco al timbro; tanto meno alla dizione. Mi riferisco alla scelta delle parole, al loro tono e al loro ritmo: un tono pacato, quasi sommesso, e al tempo stesso accorato e partecipe; una cadenza ipnotica che ricorda il respiro del suo e del nostro mare, a cui ha dedicato tante pagine e tanti versi. Fra i più recenti, questi: «il mare lascia dondolare / i corpi dei bambini nelle culle / aperte dalle onde», e sono i corpi dei piccoli migranti annegati.
Sergio conosce come pochi il valore delle parole. In gioventù – racconta nel suo libro La questione (2007) – ha subito il fascino della poesia ermetica e del suo culto della parola, ma si è presto convinto che compito delle parole non è sedurre, bensì comunicare; che diversamente le parole – come dice Brecht – sono soltanto suoni.
Le parole di Sergio, quelle che usa sia quando parla che quando scrive, sono chiare, facili, puntuali, oneste. Tutti sono in grado di capirle; nessuno può equivocarle. La sua scrittura, come i suoi discorsi, è esemplarmente semplice. Ma intendiamoci: semplicità non è povertà, al contrario. È la capacità di dire le cose essenziali nel modo più diretto, efficace, libero e personale. Non è un punto di partenza, ma un punto d’arrivo; il risultato di un’intera vita di lavoro con le parole e sulle parole. Che nessuno dovrebbe sprecare, né usare a vanvera.
La forma più civile e rispettosa della comunicazione è il dialogo. Chi ha seguito, negli anni, le inchieste televisive di Sergio, e i libri che da queste sono stati tratti, sa quale peso vi abbiano i dialoghi e quanto lucide e meditate siano le domande da lui poste. È proprio la loro struttura dialogica non fittizia – fatta, cioè, di dialoghi veri, e non di monologhi mascherati – che rende memorabili, e inconfondibili, queste inchieste. C’è, dietro le domande, un’autentica sete di sapere, l’urgenza di trovare, insieme ad altri, le risposte a interrogativi assillanti della politica, della storia, della condizione umana: l’ambiente, le risorse, le conquiste e gli scacchi della scienza, il terrorismo, il fascismo, la guerra; e oltre a questi «lo scandalo del male», il dolore, la vecchiaia, la morte; e Dio, il primo dei temi e l’ultimo.
«Porre domande agli altri, e a noi stessi,» ha scritto Sergio «è il modo più efficace per inoltrarsi nella conoscenza». Una conoscenza da non tenersi ben stretta, come l’avaro l’oro, ma da condividere con gli altri. Per questo, e proprio perché ha scelto per sé non il ruolo del protagonista, ma quello del testimone, Sergio è un vero maestro. Per la fedeltà ai suoi valori e alle sue amicizie; per il suo affetto per Rimini e per tutte le lettere d’amore che ha scritto alla città della sua infanzia e della sua giovinezza, da Romanza (1987) in poi, vogliamo assicurargli che i suoi sentimenti sono ricambiati e festeggiare oggi con lui i suoi novantacinque anni operosi.
Piero Meldini