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Sergio Zavoli, da Von Braun a Vito Taccone. Ritratto di un cronista anomalo

Solitamente quando una persona scompare si è soliti dire che aveva anticipato i tempi. Sergio Zavoli no. Perché egli, pur essendo nato a Ravenna nel 1923, era come se si portasse dentro l’animo gli ideali di mezzo secolo addietro, cioè a dire il sentire comune di una regione dove era il socialismo riformista aveva dato i suoi frutti migliori.

Zavoli era Ottocentesco. Perché è proprio nella Pianura padana che si forma e prende corpo quella particolare natura religiosa del socialismo. Una natura aspramente criticata da quanti sostenevano la natura ateistica del socialismo ma rivendicata da quanti sostenevano che la religione non fosse inconciliabile con i principi della rivoluzione sociale. E Sergio Zavoli si portava dietro tutta quanta questa lezione.

Come non leggere in questa chiave alcuni dei suoi libri più celebrati, da Socialista di Dio, a Credere non credere fino a Se Dio c’è, Le grandi domande. Dialogo con Piero Coda.

Sono i suoi libri meno famosi ma sono anche quelli che consentono di capire il suo modo di fare giornalismo, la sua maniera di sentire e far capire la notizia. Perché Sergio Zavoli, per tornare al socialismo evangelico di fine Ottocento, era un «deamicisiano organico». Ossia guardava a quella umanità che ha attraversato per quasi un secolo alla stessa maniera dei naturalisti francesi di fine Ottocento e della schiera degli imitatori italiani. Zavoli conosceva molto bene I miserabili di Victor Hugo. Non credo avesse mai letto un rigo di De Amicis ma è proprio all’autore di Cuore che più somiglia.

Per lui De Amicis era diventato una sorta di norma non solo per quello che riguarda lo sguardo sugli intervistati o sui fenomeni analizzati ma per quella capacità, più volte sperimentata anche da chi scrive, di ricreare all’interno di una ristretta cerchia di amici quello stesso clima della classe nella quale l’autore di Cuore, fa recitare Franti, Garrone o Bottini. E in quella classe lui naturalmente giocava il ruolo del maestro Perboni.

In un mondo come quello radiotelevisivo che a partire dagli anni Cinquanta celebra riti e linguaggi di mezzi busti compassati, Sergio Zavoli restituisce una realtà capace di tenere assieme più registri sociali. Di fronte a un giornalismo paludato le sue interviste riguardano i grandi della terra e, al tempo stesso, il «mondo degli ultimi». A Wernher Von Braun (l’uomo che mandò il primo uomo sulla luna) riserva negli anni Sessanta lo stesso spazio che dedica alla «Donne in nero» di Goro che due volte la settimana vanno al cimitero e iniziano il loro dialogo con i morti. Ad Albert Schweitzer, «il grande medico missionario bianco» rivolge le stesse domande sul senso della vita che avanza alle suore di clausura in un memorabile servizio radiofonico del 1958.

E fra gli «ultimi» di Sergio Zavoli ci sono, nel 1968, i «matti». infatti è in quell’anno che per la prima volta il giornalista riminese porta le telecamere della televisione nel manicomio di Gorizia, diretto da Franco Basaglia. Di lì a poco tempo lo psichiatra triestino avrebbe avviato la sua epocale riforma sui manicomi.

E in questo suo miscelare cultura alta e cultura bassa, elevando quest’ultima al livello della prima Zavoli non è stato secondo a nessuno. Anzi, i suoi imitatori devono ancora venire. E quella cifra così particolare si coglie anche in una trasmissione come «Processo alla tappa» che sbaglieremmo a catalogare semplicemente come una trasmissione sportiva.

In realtà nel «Processo» Zavoli porta l’impronta del suo stile così particolare non tanto per la cronaca sportiva ma per il racconto di una Italia e dei suoi personaggi. Anche di quelli sconosciuti. E chi non ricorda Lucillo Lievore, il ciclista veneto, eterno perdente, che divenne famoso nel 1966 per una intervista che Sergio Zavoli gli fece durante una tappa?

Ma sono due su tutti i ciclisti che fecero la fortuna della trasmissione di Zavoli: Vittorio Adorni e Vito Taccone. Il campione parmense, elegante, raffinato e dal linguaggio forbito sembra l’incarnazione della classe imprenditoriale che sta realizzando il boom economico. Il secondo, che parla un dialetto sguaiato e infarcito di improperi, sembra la rappresentazione di quel mondo «degli ultimi» che dal Sud risale a realizzare come operai di fabbrica il miracolo degli anni Sessanta. Cultura alta e cultura bassa, come direbbero i sociologi. Classe inarrivabile e ancor oggi priva di imitatori come sussurra chi sa di giornalismo.

Stefano Pivato

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