“Ha tirato una saracca”, “Gli ha dato una bella zacagnata”, “Abbiamo preso una gran sagattata”: perduto il dialetto, in Romagna queste parole sopravvivono nel gergo. E anche i giovani le usano, negli stadi e non solo, quando giocano a fare i duri. Per dire di una forte botta, come un bel tiro dalla distanza, un risultato a valanga. Ma anche un pestaggio o peggio.
Tutte le parole hanno una storia, alcune la storia la raccontano. Andando alle origini di questi vocaboli si scopre una cosa in comune, anche se ormai, per fortuna, per lo più dimenticata. O quasi: a Firenze tutt’ora si dice: “Romagnolo, coltello pronto”. Indubbiamente fino almeno a tutto l’Ottocento tale era la nomea di questa terra. La si riconosce nella letteratura con “Sangue romagnolo” del De Amicis di “Cuore”. Nella storia e nella politica con il processo della Setta degli Accoltellatori di Ravenna. Nella storia e nella leggenda con il brigante chiamato Il Passatore.
Il processo che si tenne a Ravenna nel 1874 vide nella gabbia venti imputati, più tre latitanti. Gente della più diversa estrazione sociale. Ai ferri: Aristodemo Pascucci detto “Demo”, falegname; Angelo Biancani detto “Zoppo”, guardiano idraulico, e Attilio Biancani suo fratello, fornaio; Agostino Antonelli detto “il Tosto”; Giovanni Geminiani detto “Buratello”, pescatore; Sante Vitali detto “Panetti”, ortolano; Apollinare Santucci, impiegato delle Ferrovie; Pietro Alberani detto “Piron”, cappellaio; Achille Severi detto “Arclinet”; Luigi Dall’Agata detto “Bel Gigi”, guardia daziaria; Filippo Mazzotti detto “Baffi bianchi”, oste; conte Rutilio Corradini-Pignatta, possidente; Agostino Vicari detto “Cocomina”, barbiere; Pietro Piazza, stuccatore; Domenico Bendazzi; Leopoldo Stinchi detto “Poldo”, oste; Gaetano Spada detto “Cannoni”, negoziante; Cesare Viola, oste; Respiccio Badessi, cappellaio. In contumacia: Sante Romagnoli, pescatore; Giovanni Savorelli, ortolano; Diego Calderoni, calzolaio; Gualtiero Doni, possidente.
Fra i capi d’accusa comparivano centosette coltellate (ma anche quattro colpi di pistola e una scarica di pallettoni) in dodici delitti compiuti tra il 1865 e il 1871. Enorme l’eco in tutta Italia, anche perchè fra le vittime ci fu un Procuratore del Re, Cavalier Cesare Cappa, pugnalato a morte mentre infilava le chiavi nel portone di casa sua a Ravenna il primo di giugno del 1868. In quei sei anni ci furono altri sette morti, almeno 6 i feriti gravi: notabili, dazieri, ma anche poveracci in quanto “spie” o semplici nemici personali. Gli accusati erano tutti anarchici e repubblicani, molti ex garibaldini, delusi di un’Italia unita sì, ma sotto un re. I più aderenti alla “Società di mutuo soccorso” poi rinominata “Fascio operaio rivoluzionario”, fondata dall’oste e capitano garibaldino Giovanni Cavalcoli detto “Ferri”.
A Ravenna in un giorno del 1864, nell’Osteria della grotta in via delle Melarance, una dozzina di repubblicani inseparabili compagni d’arme del “Ferri” avrebbero formato la setta giurando di “farla finita con questi boia”. Chi fossero i “boia” e perchè andavano colpiti lo spiegherà nel 1877 il giornale “La giovane Romagna”, che definì la Setta degli Accoltellatori “ultimo frutto della mala pianta del governo del Papa nelle Romagne”. Ragionando così: “La fonte causa al sorgere di questo frutto attossicato si deve al disinganno provato dal popolo all’indomani della nostra rivoluzione, quando si videro le redini del nuovo governo rivendicato dalla forza popolare nelle mani di coloro che, chiamandosi moderati, erano stati gli umili servitori del governo dei preti”; “coloro appunto che da sicari del Papa s’erano fatti padroni d’Italia”.
Il dibattimento durò appena due mesi e mezzo senza riuscire a dissipare molte ombre. Basato sulle rivelazioni di Giovanni Resta, “terrorista pentito” come diremmo oggi, il processo mise insieme fatti da alcuni ritenuti estranei fra loro. Però non sfiorò il cadavere più eccellente di tutti: quello del Prefetto militare di Ravenna generale Carlo Piero Escoffier. Inviato dal governo assieme a un battaglione di Bersaglieri per ristabilire l’ordine dopo il clamoroso omicidio del Procuratore Cappa, il generale, secondo voci che circolarono da subito, avrebbe ficcato il naso anche là dove non doveva. Ovvero nella corruzione dilagante fra i pubblici funzionari, alcuni implicati in traffici illeciti proprio con qualche “accoltellatore”. Il 19 marzo 1870 Escoffier fu ucciso a revolverate nel suo ufficio dal Questore Pio Cattaneo, “gravemente offeso” per un non gradito trasferimento a Grosseto, come dichiarò egli stesso. Movente che non convinse nessuno, mentre si insinuò che il funzionario avesse agito su commissione per tagliare i ponti fra inquirente e sospettati. Il Questore fu condannato a 20 anni di lavori forzati.
Le sentenze contro la Setta degli Accoltellatori furono invece: una condanna a morte (per il latitante Savorelli), 12 ergastoli ai lavori forzati, una condanna a 10 anni sempre ai lavori forzati, cinque pene fra i 7 e i 12 anni; quattro le assoluzioni. Il delatore Resta ottenne un vitalizio di 200 lire mensili (lo stipendio di un Prefetto) e si dileguò a Parigi, dove peraltro finì per ridursi a grama vita di ballerino in locali di infimo ordine. In Romagna il suo nome passò immediatamente a designare la peggior specie di infame. A tanti venne poi comodo additare come origine di tutti i mali il capitano “Ferri” in quanto fondatore del Mutuo Soccorso: ormai era morto combattendo con le camicie rosse di Garibaldi a Monterorondo nel 1867. Tuttavia Ravenna celebra tutt’ora Giovanni Cavalcoli come un eroe, dedicandogli anche una via.
E le parole cosa raccontano di tutto questo? Innanzi tutto, non c’è dubitare che buona parte dei settari ravennati impugnassero la saracca. Ovvero il tipico coltello da lavoro romagnolo: manico in un unico pezzo di corno bovino e molla esterna che blocca una lama solitamente sui 20 centimetri; molla che presenta il caratteristico “riccio”, e’ rez. Beninteso, dalle Alpi alla Sicilia il coltello era compagno inseparabile di ciascuno e soprattutto in campagna. Andava però per assodato che i romagnoli vi mettessero mano un po’ troppo volentieri; in particolare in occasione dei balli domenicali da cui, complici i fumi del vino, immancabilmente scaturivano le risse per “questioni d’onore”.
Tortuosa l’origine della parola. La Treccani riporta: “Salacca (region. saracca) s. f. [prob. dallo scozz. sillock, raccostato a sale]. – 1. a. Nome pop., in varie regioni, della cheppia e di altri pesci simili alle sardine, ma di scarso pregio, conservati e venduti sotto sale o affumicati. b. estens. Cibo misero, da poveri: mangiare salacche, vivere di salacche, mangiare poco e male, vivere poveramente. 2. fig. a. In funzione di predicato, e anche in similitudini, con riferimento a persona molto magra, secca, allampanata: è una s.; ha le occhiaie che le scendono fino in bocca ed è magra come una salacca (Dacia Maraini). b. scherz. e spreg. Sciabola. c. scherz. e spreg. Libro vecchio, mal tenuto e di poco conto. 3. Colpo, percossa dati con la mano aperta: dare, prendere una salacca. ◆ Dim. salacchino m. (anche leggero colpo dato con due o tre dita stese); accr. salaccóne m.”.
In Romagna il coltello avrebbe adottato questo nome per via della sagoma, che poteva ricordare quella del pesce in questione. Sta inoltre a indicare la bestemmia, nonchè talvolta lo sputo (per assonanza con “scaracchio”). Quanto al significato moderno e calcistico, presso le tifoserie di alcune regioni “saracca” non è la bella legnata che si infila nel sacco, ma al contrario un tiro particolarmente mal riuscito. La saraccata del centravanti, per quanto violenta, è comunque solo una gentile nipotina di una feroce bisnonna.
Intricata anche l’etimologia di “zacagnata” e “zacagnare”. In Veneto “sacagno” è il coltello e anche lì “sacagnare” si estende a “picchiare, guastare, rovinare”. In tal senso in Romagna gioca il suo ruolo anche l’assonanza con zacàre, schiacciare. Invece nel Centrosud la zaccagnata è esclusivamente la coltellata e zaccagnare significa solo accoltellare. Secondo il venerando Pietro Ottorino Pianigiani (1907), zaccagnare ha lo stesso etimo di “taccagnare”, dal francese taquiner ovvero aizzare, tanto che il taquin è l’attaccabrighe. Anche in tedesco zu zacken significa attaccarsi, litigare. Il tutto discenderebbe da un longobardo zahi e/o dal gotico tachu, entrambi significanti “tenace”.
Sulla “sagattata” sappiamo invece qualcosa di più certo. E affascinante, poichè conduce nel terreno del sacro: la parola deriva infatti nientemeno che dall’ebraico Shecḥitah, cioè la macellazione casher degli animali. L’apposito coltello si chiama sakin e deve possedere caratteristiche minuziosamente elencate dall’Halakhah, la normativa religiosa giudaica. Fra esse l’accuratissima affilatura e la caratteristica punta piatta, ai fini di una morte che deve essere inflitta “con pietà”. Nel 1547, il conte Giulio Boiardo concesse ad alcuni israeliti della sua Scandiano “Che ditti Ebreo et soi ut supra possino e vogliano sagattare et uccidere le loro bestie et ogni animale morticino…”, insomma di poter liberamente effettuare la macellazione previo rituale sgozzamento. La Shecḥitah ancora oggi trova nei paesi europei regole differenti: in Slovenia è addirittura proibita, mentre alcune legislazioni – in Svizzera, Austria, Slovacchia, Belgio, Grecia, Scandinavia – richiedono un qualche stordimento della vittima sacrificale.
Stefano Cicchetti
(Nell’immagine in apertura, cartolina pubblicitaria del film “Sangue romagnolo”, regia di Leopoldo Carlucci, produzione Film Artistica Gloria – Torino, 1916)