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Santarcangelo: con Multitud ognuno si mette a nudo

Chissà cosa intende Tamara Cubas, artista nata sotto la dittatura militare in Uruguay, cresciuta a L’Avana (Cuba) e oggi attiva artisticamente in prevalenza a Montevideo, con il termine Multitud. Di certo è il titolo di un suo spettacolo. Mi pongo questo interrogativo perché la parola italiana che la traduce per assonanza è senz’altro moltitudine, ma nella lingua spagnola assume molteplici significati. Non solo moltitudine, ma folla, pubblico, gente. Moltitudine è un grande numero di persone e deriva da molto, che vuol dire accumulo, quantità. Folla ha un’etimologia curiosa: significa sia premere sia ‘pestare la lana per farla diventare un panno’; anche catenaccio che stringe, serra, circonda, comprime; una moltitudine di gente. Strano, non una moltitudine di persone, ma di gente. Se persona è la maschera di legno portata sulla scena nel teatro greco in cui dentro risuona rafforzato il timbro della voce, gente deriva da generare, partorire, produrre.

Moltitudine di gente è quindi un gran numero di generanti, di partorienti, di produttori, di viventi appartenenti a una famiglia, una razza. La parola ‘pubblico’ è una contrazione di popolo: che concerne tutti. Popolo è ciò che si riunisce, che si mette assieme. Tamara Cubas in questo spettacolo ha portato in scena una moltitudine, ma anche una folla, un pubblico, della gente. Tanta gente. Una sessantina di persone del territorio, con differenze di età, formazione, stile. Uno straordinario esperimento su come una moltitudine prenda forme sempre diverse, a seconda del variare dello spazio in cui si incontra, meglio, nel recinto in cui viene fatta interagire. Sono corpi di donne, di uomini, di ragazze e di ragazzi che solcano delle traiettorie personali che inevitabilmente intersecano quelle degli altri. A furia di vorticare, di correre, di saltare, di scappare, succede qualcosa d’imprevedibile. Forse di perverso. Gli individui abbandonano progressivamente la loro libertà di movimento per dare vita a un agglomerato, un gomitolo di carne. In latino, glomus, da cui gomitolo, altro non è che la zolla, che è la terra che si raggruma dopo che è passato un vomere, o una zappa. Qualcosa che fende, che recide. Un accorparsi a seguito di qualcosa che si abbatte per separare. Tamara Cubas ha coreografato questo spettacolo pensandosi il vomere che solca e fende il terreno degli uomini e delle donne che sono sulla scena. Gli attori improvvisati, la zolla di terra che si accorpa. Forse per proteggersi, per trovare calore dall’ammucchio, dal contatto, dallo sfregamento con altri corpi.

Forse perché una zolla diventa fertile, ed è pronta a generare. Gli attori sono disposti geometricamente distanti tra loro. Poco dopo l’inizio, con l’incalzare di un tappeto sonoro che reca tracce di esplosioni cosmiche, di radiazioni di fondo dell’universo, di cuori meccanici che battono come pistoni, i corpi si marionettizzano, sono sopraffatti dalla forza di gravitazione terrestre. Per non soccombere sotto il peso di cieli zuppi non solo di nubi ma di divinità e angeli assenti, comincia una prima – lenta e poi sempre più vorticosa – fuga. Ognuno scappa da se stesso verso un altro che a sua volta fugge da questi incontri disperati. Sono le dinamiche delle attrazioni e delle repulsioni. L’umanità come una scacchiera impazzita in cui i pedoni si sentono regine e le torri crollano, per essere afferrate da qualche alfiere che cerca di giungere in tempo prima dello schianto al suolo.

Tamara Cubas ha messo in scena una moltitudine che sembra conservare in sé tutte le tracce del Big Bang iniziale. Ego in cerca di solidarietà. Un alfabeto fatto di corpi che provano a scrivere una storia comune. Ma i passaggi sono drammatici. Perché dopo questo smarrito scorribandare, tutti sentono l’esigenza di agglomerarsi e di prorompere in un riso che non nasce dal comico, ma dal tragico dello stare insieme. Una risata che cerca di essere un mantra per scacciare la paura di essere condannati a un esilio permanente.

Poi, dopo la risata che unisce, i movimenti che seguono sono quelli del branco che cerca la preda. I più forti che si coalizzano per individuare il capro espiatorio, il corpo sacrificale sull’altare della comunità che prova a fondare il rito della convivenza. Così il primo corpo di donna viene fatto a pezzi. La scena è resa simbolicamente con lo squartamento degli abiti; abito come prima e ultima pelle.

E dopo questa scena di caccia, dopo questo bracconaggio per determinare chi è la vittima e chi saranno i carnefici, il branco torna a essere moltitudine che si volta verso il pubblico che assiste, emettendo urla strazianti. La ferocia che segue lo sbranamento ma anche il lamento per la consapevolezza che siamo mortali, perché la prossima volta, la vittima potremmo essere noi. Segue un ritorno al caos primigenio, dopo che piccole mute di corpi si sono fermate qualche secondo in un abbraccio. Comincia la svestizione sistematica dell’altro.

Il furto dei panni, indossati e dismessi a ripetizione. Un rituale ossessivo. Evocativo dell’umanità che cerca di spogliarsi della propria identità, di indossarne altre non conosciute. Ritorna potente la domanda che dà vita a ogni tragedia: chi sono? La musica che investe questa tribale sequenza di movimenti è martellante. Spari. Esplosioni. E i corpi tentano una fuga disperata, sino a distendersi tutti in terra. Un cimitero di vivi. La rievocazione della bolgia dantesca.

I corpi sono distesi – pancia a terra – e gli ultimi avanzano calpestandoli. Sino a ricreare un nuovo agglomerato di corpi. Un impasto che torna lievemente a lievitare. Corpi-mondo avvolti da una placenta cosmica. A tratti sembra un rituale orgiastico, attraversato da un piacere doloroso, a tratti il drammatico tentativo di sopravvivenza di chi sta per soccombere sotto lo stremo dei corpi che lottano per impedire che la specie si estingua. Un ammasso destinato a una perpetua disgregazione.

I corpi si riallineano – infine – su una retta immaginaria, punto d’arrivo dello spettacolo e punto di partenza verso l’infinito dell’interpretazione di quanto sia successo fino a quel momento.

Tamara Cubas ha messo in scena – semplicemente – la vita. Per questo non potevano mancare corpi nudi che non possono e non vogliono sottrarsi allo sguardo del mondo. Tutti i corpi sono solo esibiti, mai ostentati. Dal feto al cadavere. Passando per l’intermezzo di carne che pulsa vita. Che è la vita. E se tutto questo può sembrare scandaloso, non è da addebitarsi al teatro ma semmai alla vita.

Che è di per sé scandalo: trappola, inciampo, impedimento. La vita è uno scandalo permanente perché in ogni suo istante è presente e si annida anche la morte. Proprio la nudità esibita ci ricorda che veniamo al mondo nudi. E che nella nudità proviamo il piacere più intenso scaturito da un incontro. E che nuda è la madre generante vita. E che dopo ogni vera lotta – ogni uomo e ogni donna ritornano nudi. Il corpo morto nudo – a sua volta e a suo tempo – sarà lavato e preparato per il grande viaggio. Potremmo concludere che solo dove c’è nudità c’è vita. Fino all’ultimo.

Altrimenti siamo in presenza di maschere, personaggi, ruoli. Carnevale. Tamara Cubas ci ha ricordato che la nudità è sacra. Perché è separata dal divino. Ed è la sostanza di cui noi umani siamo fatti. E così, per raccontare Multitud non ho fatto altro che mettermi (a) nudo anch’io.

Paolo Vachino

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