Qualche giorno fa mi sono visto recapitare l’articolo dal titolo “Sanità in Romagna: no a centri chirurgici di serie A e di serie B”, pubblicato su Chiamamicittà.it il 28 dicembre a firma del Dr, Alberto Ravaioli.
Il titolo mi ha incuriosito e ancora di più mi incuriosiva leggere le argomentazioni (qualsivoglia argomentazione degna di questo termine, politica o tecnica che fosse) che l’autore dell’articolo, dopo avere qualificato come “datate” e “non sempre comprensibili” le riorganizzazioni di suo interesse, aveva annunciato nel capoverso di apertura (“ne diremo le ragioni”).
Purtroppo, la mia curiosità è rimasta insoddisfatta e al termine della lettura le considerazioni espresse mi sono sorprendentemente apparse tutt’altro che argomentate. Direi dogmatiche.
Nonostante, la personalità dell’autore, i temi e il modo in cui sono trattati meritano un breve commento.
Provo quindi ad argomentare sui punti che sono stati portati all’attenzione dei lettori.
È vero, malgrado la fase che caratterizza il periodo dell’insediamento della nuova direzione, si stanno proponendo e in parte realizzando progettualità e cambiamenti organizzativi. Non solo quelli a cui fa riferimento il Dr Ravaioli (aggiornamento del disegno dipartimentale e assetto delle chirurgie generali), tuttavia per finalità di concretezza mi concentrerò su questi.
Come noto, l’organizzazione è qualcosa che deve consentire ad una comunità sociale (nel nostro caso l’Azienda USL o sue parti) di soddisfare nel modo migliore possibile sia la sua ragione d’essere sia i relativi obiettivi. Pertanto, che la configurazione organizzativa sia innovativa o sia “datata” risulta indifferente. Deve semplicemente essere quanto più capace di consentire che si facciano bene le cose “giuste”. Ne consegue che formulare un giudizio sulla datazione di una configurazione organizzativa, anziché sulle sue ragioni, è un esercizio inconferente che, in questo caso, mal si adatta alla caratura di chi lo fa.
Vengo quindi alle ragioni del parziale ridisegno dipartimentale che ci ha visto proporre il superamento di alcuni dipartimenti.
Come è formalmente esplicitato nei documenti portati all’attenzione degli attori, interni ed esterni all’azienda, consultati e coinvolti nella riflessione sull’adeguatezza degli assetti dipartimentali (noi apparteniamo a coloro che pensano che non sia male verificare periodicamente se quello che si fa è il meglio che si possa fare nelle condizioni date), l’obiettivo è stato quello di consolidare le soluzioni organizzative valutate efficaci ed efficienti e rimodulare ciò che presentava margini di miglioramento. Così alcune soluzioni precedentemente adottate sono state considerate particolarmente felici, sotto il profilo degli obiettivi e delle caratteristiche qualitative dei servizi che si intendevano enfatizzare, e degne di ulteriore impulso. È il caso dei dipartimenti cosiddetti “transmurali” (salute donna, maternità e infanzia o delle cure primarie) che aggregano al loro interno servizi ospedalieri e territoriali nell’intento di enfatizzare la continuità ospedale territorio. Invece, altre soluzioni dipartimentali, in particolare quelle di alcuni dipartimenti unici aziendali, sono state valutate essere delle scelte non sempre azzeccate e apparentemente determinate più da una volontà di controllo professionale o finanziario, oppure da una eccessiva enfasi sui benefici della uniformità comportamentale, piuttosto che essere fondate sul presupposto della capacità di soddisfare in modo efficace ed efficiente la popolazione da servire.
È il caso, in particolare, dei dipartimenti di Salute mentale, cardiovascolare ed emergenza urgenza. In questi casi, la dimensione aziendale è risultata essere più un ostacolo che una facilitazione per una risposta efficace ed efficiente alla domanda di servizi localmente espressa. Ad esempio, le caratteristiche di efficienza e qualità di un pronto soccorso (tempi di attesa all’entrata, tempi di processazione diagnostica, tempi di ricovero successivo) sono con ogni evidenza soddisfatte molto di più nella relazione con i servizi dello stesso ambito territoriale (territoriali od ospedalieri che siano) piuttosto che con i pronto soccorso delle altre province romagnole. Lo stesso vale per il cardiovascolare, la salute mentale o le malattie dell’apparato respiratorio. In tutti questi casi è altamente più probabile soddisfare le caratteristiche di accessibilità, di funzionalità e di continuità di assistenza ai pazienti, allineando i comportamenti e ottimizzando le relazioni tra le unità operative che sono chiamate ad interagire nello stesso ambito e traiettoria di cura.
La riduzione delle variabilità comportamentali tra unità operative della stessa disciplina è certamente un valore da perseguire ma, come sa chi mastica un pochino di organizzazione, non richiede necessariamente l’appartenenza ad uno stesso contenitore dipartimentale. Tanto più che nei casi di cui trattasi, trascorso un lustro dalla loro istituzione, i dipartimenti aziendali in non pochi casi hanno dimostrato di non essere stati in grado di superare le preesistenti difformità comportamentali. Difformità che non infrequentemente esitano senza giustificazione in diverse prestazioni di servizio al cittadino.
Sulla base delle valutazioni condotte si è convenuto che per i dipartimenti l’ambito territoriale che di norma meglio avrebbe soddisfatto le ragioni della prossimità (accessibilità, continuità, integrazione sociale-sanitario) e quelle dell’efficacia / efficienza clinico-produttiva (volumi di casistica, expertise professionali, esiti, tecnologie sofisticate) fosse quello provinciale. I dipartimenti di ambito sovra provinciale (aziendali) erano da preferire quando ricorrevano alcune condizioni quali: alta standardizzazione delle procedure produttive (laboratorio, trasfusionale), interscambio e messa in comune di risorse (diagnostica per immagini), limitate linee produttive (osteoarticolare), necessaria interazione con unità organizzative di altri ambiti territoriali per la comprensività delle traiettorie di cura dei pazienti (oncologia, neuroscienze).
Le chirurgie. Suppongo che Ravaioli faccia riferimento al documento elaborato dai nostri chirurghi, discusso ed approvato dal Collegio di Direzione dell’Azienda e trasmesso, ma non ancora discusso, alla Conferenza Territoriale Sociale e Sanitaria.
Il documento, dopo analisi dei dati di attività e di esito di tutte le chirurgie generali della Romagna, propone una sistematizzazione dell’organizzazione di alcune attività partendo dal presupposto che le sedi di erogazione per le diverse tipologie di interventi chirurgici, per i quali esistono evidenze circa la correlazione positiva tra volumi di attività̀ ed esiti, devono essere identificate evitando la concentrazione presso una o poche sedi quando non sono ravvisabili vantaggi sostanziali e significativi in termini di esiti o di sostenibilità economica. Tale identificazione deve considerare l’accessibilità e la continuità delle cure, nonché la base dei volumi storicamente garantiti e delle evidenze empiriche utili a delineare i risultati pluriennali conseguiti, guardando oltre la logica autoreferenziale del singolo centro (e del singolo professionista) in favore di una visione sistemica e sinergica.
Il documento, con l’obiettivo di piena valorizzazione e sfruttamento delle potenzialità di tutti i presidi ospedalieri, sistematizza ruoli e relazioni delle chirurgie generali e, per la casistica chirurgica caratterizzata da documentata relazione tra i volumi di attività e gli esiti clinici, enfatizza il valore del policentrismo delle realtà sanitaria della Romagna, sostanziato dai quattro presidi ospedalieri che dispongono un service mix specialistico completo in grado di supportare in ogni ambito (Rimini, Cesena, Forlì, Ravenna) chirurgia multiorgano, come strumento per coniugare accessibilità, qualità tecnica, prossimità e continuità di cura.
Per la chirurgia rara, che la norma vorrebbe concentrata in centri ad alto volume, prevede l’individuazione di un centro leader (quello storicamente caratterizzato da evidenze di più alti volumi e buoni esiti clinici) e la possibilità condizionata a specifici requisiti organizzativi e clinico-professionali, capaci di garantire le molteplici dimensioni della qualità degli interventi, che l’attività possa essere erogata in ognuno dei presidi polispecialistici.
Il centro leader ha un serie di responsabilità quali la promozione delle competenze specifiche, la formazione dei professionisti, il monitoraggio, la valutazione e la rendicontazione dell’attività svolta dai diversi centri erogativi.
Per quanto riguarda la chirurgia senologica il documento prevede tre sedi erogazione, in ognuna delle quali è garantita chirurgia oncologica e chirurgia ricostruttiva della mammella. Una di queste sedi è quella storicamente collocata presso l’ospedale di Santarcangelo di Romagna.
Dove si possa ravvisare che le proposte considerino la chirurgia una disciplina a se stante, negando in tal senso la prospettiva di un approccio e un collegamento multidisciplinare, a me resta un mistero.
L’affermazione che sia “quanto mai inopportuno creare Centri Chirurgici di serie A e serie B, senza esplicitarne i criteri di ingresso (i numeri) e rischiando di lasciare indietro realtà già consolidate da tempo, con il rispetto assoluto degli standard” è anch’essa contraddistinta dalla mancata conoscenza di ciò di cui si parla (il documento). Se con la metafora del centro di serie A si fa riferimento al centro leader è bene sapere che questo è proposto prioritariamente in base all’analisi delle serie storiche dei dati di attività che sono parte integrante del documento di organizzazione.
Quanto poi al rischio che si possano tralasciare realtà meritevoli penso sia sufficiente una rapida e superficiale lettura per comprendere che uno degli obiettivi che ci si è prefissi sia proprio quello della massima e continuativa inclusione possibile, ferma restando la massima sicurezza e i migliori esiti di cura possibili per i pazienti.
Tiziano Carradori
Direttore generale Ausl Romagna