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Sei romagnolo felice se… non fai la vita dei nostri nonni

Volete svegliarvi ogni mattina felici e soddisfatti e andare a letto ogni sera scoppiando di gratitudine? Non servono corsi di mindfulness né costosi incontri con life coach di grido, basta investire qualche euro in un libro – non di self help, ma di storia.

Ho qualche dubbio che conoscere la storia prevenga il ripetersi di tragedie epocali (quante guerre sono state scatenate per vendicare presunti torti secolari?), ma di una cosa sono certa: più ne sappiamo delle condizioni di vita dei nostri omologhi nel passato (non i re, i papi, i condottieri o gli artisti, ma le donne e gli uomini che campavano la famiglia e tiravano la carretta), più ci rendiamo conto della fortuna pazzesca che è vivere nel nostro tempo.

Il libro taumaturgico che vi raccomando è Il fango, la fame, la peste: clima, carestie ed epidemie in Romagna nel Medioevo e nell’età moderna di Aurora Bedeschi ed Eraldo Baldini, edito da Il Ponte Vecchio. Già il titolo induce a toccamenti scaramantici, e con ottime ragioni: è un repertorio accurato e documentato delle catastrofi che hanno vissuto i nostri antenati. E non in senso generale: se siamo romagnoli, i trisnonni dei trisnonni dei nostri trisnonni, gente con il nostro stesso cognome, se le sono fatte tutte, quelle calamità che arrivavano praticamente con scadenza annuale, innescate da sbalzi climatici a lungo termine.

A partire dall’alto Medioevo, quando i cereali coltivati tornano a essere la base dell’alimentazione, la sussistenza della popolazione dipende dai raccolti. Ma un buon raccolto è il risultato di un optimum meteorologico tutt’altro che scontato: piogge autunnali violente possono spappolare le sementi appena deposte, inverni miti farle germogliare troppo presto, primavere fredde stroncare le piantine, e anche se tutto è andato per il verso giusto una grandinata alla vigilia della mietitura è il disastro.

In passato ai danni delle intemperie si aggiungevano anche i passaggi dei vari eserciti, che si approvvigionavano con la razzia e il saccheggio. I cereali dovevano essere importati e venivano venduti a caro prezzo e non solo i più poveri, ma anche i meno ricchi morivano di fame, in primis i bambini.

I sopravvissuti erano così indeboliti dalla malnutrizione che soccombevano non solo al peste e al tifo, ma anche alla semplice influenza e al freddo invernale. Il libro di Bedeschi e Bandini ci dice che in Romagna la storia della gente comune per molti secoli, è stata una lotta impari e ininterrotta con i quattro cavalieri dell’Apocalisse.

Le cavallette? C’erano pure quelle. A Rimini il clou si raggiunse a fine Cinquecento, quando si susseguirono gelate e inondazioni, la città venne ripetutamente sommersa dal Marecchia e dall’Ausa, e ogni volta fu una strage, seguita da epidemie dovute alle acque stagnanti e alla difficoltà di smaltire cadaveri e carcasse di animali. Alle sciagure naturali si aggiungeva la piaga del brigantaggio, prodotta dalle tremende disuguaglianze sociali inasprite dalle carestie. Bedeschi e Bandini chiudono il loro libro con l’ultima grande pestilenza del 1648, ma nella nostra terra la giostra di disgrazie continuerà per più di un secolo.

Non sono poi tante le generazioni che ci dividono da fame, fango e peste. Igiene, case riscaldate e pane a sufficienza ogni giorno sono conquiste recenti, benefici enormi ma tutt’altro che scontati. Quando si chiude il libro si rabbrividisce pensando a tutta la sofferenza che il fato ci ha risparmiato, e si vive ogni piccolo, normale comfort della vita come un lusso prezioso. Magari ci si lamenta un po’ di meno.

E considerato che nella storia i crolli delle civiltà, dagli Ittiti in poi, non vengono innescati da “sostituzioni etniche”, ma dagli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici, viene voglia di impegnarsi più seriamente per contrastare il riscaldamento globale, perché in un prossimo futuro ai quattro cavalieri non torni la voglia di farsi un giretto dalle nostre parti.

Lia Celi

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