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Roberto Galimberti, il pistard di Rimini che preferì la laurea alla bicicletta

La pista con la sua regale eleganza, un elisse perfetto calato tra alte, vocianti tribune, il suono della campana che annuncia l’ultimo giro, il pubblico composto di tecnici competenti che tutto sanno, lo sfavillio delle luci e loro: i pistards, quelli che Mario Fossati definiva: “aristocratici del muscolo fasciati in svavillanti maglie di seta”, è ormai un mondo che appartiene al passato.

Fu un inglese, un tal Henry Sturmer che il 23 Novembre 1892, fondò l’International Cyclist Association e fu sempre lui che, l’anno seguente, a Parigi, fece disputare il primo: Championat du Monde Amateurs de Sprint. Per correre in pista, i velocisti non dovevano essere dotati soltanto di mezzi fisici eccezionali. Dovevano possedere acume tattico, intelligenza, riflessi pronti e tanto tanto coraggio. A seconda della tattica che il corridore adottava, la gara assumeva, pur nella temporalità ristretta, caratteristiche sempre differenti.

Esistevano gli specialisti dello sprint prolungato: uomini potenti, che azionando rapporti spaventosi, cercavano, pedalando in testa, di evitare il “jump” di un avversario scattante, rapido, felino. La sorpresa era quasi sempre l’arma vincente, per cui, l’assioma al quale tutti si adeguavano si riduceva a questa semplice regola: “Parti più tardi possibile, ma sempre un attimo prima del tuo avversario”.

Oggi, purtroppo, i re dello sprint sono solo sbiadite fotografie ed i loro nomi assai poco dicono anche agli appassionati ciclofili. Nomenclatura, dicevo. Del resto chi sa qualcosa del tedesco Heinrich Mayer, dell’americano Major Taylor “il nero volante”, o del danese Thorwald Ellegaard, o del francese Gabriel Poulain, o di Frank Kramer (a proposito: il padre del musicista Gorni Kramer mise questo nome al figlio, Gorni era il cognome, per amore del fortissimo pistard statunitense), o dello svizzero Kaufmann, dell’olandese Moeskops o del leggendario Arthur Augustus Zimmermann, la cui classe era oro purissimo, il quale, alla fine dell’800, in sella ad una pliocenica bicicletta, con pedali privi di fermapiedi, correva gli ultimi 200 metri in 12″ netti, servendosi di un rapporto piccolissimo (appena m. 5,35) ed il giro di pista (m.333,33) in 21″3/5, un tempo che non è del tutto disprezzabile neppure oggi; un fenomeno capace di far girare le gambe ad un ritmo di 187 colpi di pedale al minuto?

Rimini ha avuto per molto tempo una pista. Era di cemento. Circondava il campo di gioco dello Stadio Comunale “Romeo Neri”. L’insipienza degli amministratori locali, l’indifferenza della cittadinanza, le becere ragioni dei calcio- tifosi, contribuirono a distruggere una struttura che per il lungo abbandono era sì degradata ma, per restaurare la quale, sarebbero bastate ben poche lire. Vecchio discorso.

Roberto Galimberti, riminese, classe 1946 cominciò a correre nel 1961, allorché si rese conto che, con una comunissima bicicletta sportiva, (credo si trattasse di una Torpado), riusciva, in quelle ingenue sfide che continuamente, a quei tempi si effettuavano tra amici, a battere tutti. Anche quelli più grandi di lui. Anche coloro che già possedevano una bici da corsa. Li “bruciava” letteralmente. Per un giovane tanto rapido e risoluto nello scatto la via, nel mondo del ciclismo, poteva essere una sola: la pista.

D’altra parte, Roberto Galimberti, non era nato per andare in salita. La sua stazza fisica non gli consentiva sogni da grimpeur. La bicicletta era una passione ma le ascese gli procuravano calvari di sofferenza. Per cui decise di correre soprattutto in pista dove poteva far valere il suo colpo di pedale agile e potente, le sue doti di grande acrobata, la sua intelligenza tattica, la sua straordinaria scelta di tempo e la sua grande reattività. Assecondato da un padre affettuoso ed appassionato, prese parte sia da esordiente che da allievo, anche a molte gare su strada. Non gli era difficile, alla fine, far valere la sua legge.

Era scritto: se Galimberti giungeva all’ultimo chilometro in compagnia di quelli di testa, era lui a tagliare per primo il traguardo. Nell’arco di tempo che va dal 1961 al 1965 vinse ben diciassette corse. Ma era la pista che Roberto amava. Lì nel “catino” che non ammette errori né codardia, si sentiva pienamente a suo agio. Lì poteva produrre al meglio il suo gesto atletico che coniugava la forza all’intelligenza. Per due anni consecutivi (1964 – 1965) si aggiudicò il titolo di Campione Emiliano-Romagnolo della velocità. Fu a quel punto che i tecnici federali cominciarono a tener d’occhio l’atleta riminese. Erano i tempi in cui Maspes, Beghetto, Bianchetto, Gasparella, Ogna, Sacchi, Gaiardoni, Lombardi, mietevano allori in tutti i velodromi d’Europa. L’indiscusso maestro della pista italiana era Guido Costa.

Il commissario tecnico, convocò a Milano il giovane Roberto Galimberti. L’occasione gli venne offerta dal Trofeo Malinverni. Questa manifestazione, un grande torneo riservato alle verdi promesse che non avessero superato i ventun anni, si disputava al Vigorelli. Era un vero e proprio Campionato Italiano dei giovani. Il Vigorelli: un vero capolavoro, scaturito dalla geniale fantasia dell’architetto Shurmann e che la carpenteria Bonfiglio mise in opera a Milano, nel popolare quartiere della Bullona nel 1935, è un’ elisse lunga 397 metri. Una pista parzialmente coperta, sistemata sotto il livello del suolo, ricoperta di tessere di abete che la rendono scorrevolissima. Un disegno talmente puro da ricordare la perfetta proporzione di uno Stradivari. Le ridotte dimensioni dell’anello, la pendenza delle curve provocò un certo timore nel nostro giovanissimo velocista, tanto da farlo girare sempre alla corda. Fece presto ad acclimatarsi. Dopo pochi giorni, superato il “trak” (cioè il terribile morso dell’emozione), si lanciava giù dalle curve con un’audacia incredibile. Si impose su tutti, facendo registrare negli ultimi duecento metri l’ottimo tempo di 10″8.

Guido Costa, che molto sperava da quel giovane assennato, serio, educatissimo notò che il tubo piantone della bicicletta di Galimberti era eccessivamente alto, date le sue misure corporee, che la piega del manubrio era poco profonda e che il rapporto che spingeva (23×8=m.6,14) era troppo basso. Affidò pertanto il ragazzo alle esperte mani del telaista Pogliaghi, lo Schubert dei telaisti, il quale, seppe costruirgli una bicicletta su misura, solida, rigida e ben squadrata.

Si misurò, uscendone sempre con onore, con tutti i pistards della sua epoca. Ma alla vita zingaresca, incerta, precaria, che la carriera del ciclista gli prospettava (la Brill, una squadra importante voleva ingaggiarlo), Roberto Galimberti, con sano ed avveduto realismo, preferì quella meno avventurosa del conseguimento di una laurea ed il successivo solido e sicuro impiego. Si laureò in Economia e Commercio e la luccicante Pogliaghi restò appesa nel garage di via De Bosis a Rimini, dove da sempre abita il nostro uomo.

Oggi, con trenta chilogrammi in pù, Roberto pedala ancora per puro piacere, senza ambizioni agonistiche e con grande tranquillità. Pedalando insieme, nelle mattinate domenicali, riandiamo con i ricordi ai surplace di Maspes (nel mondiale del 1961 Rousseau venne inchiodato dal milanese con un surplace di 27′. Ebbe la meglio Maspes), alle spettacolari corse dietro motori, con i ciclisti incollati al rullo di mastodontiche motociclette di 2000 centimetri cubici di cilindrata, condotte da entraineurs, scaltri e tattici, ricordiamo nomi, facciamo rivivere personaggi lontani protagonisti di un folklore autentico. Le nostre ruote corrono, purtroppo insieme ai giorni, alle stagioni, agli anni. Chissà se c’è ancora qualcuno a sapere cos’è il passo Humber?     

Enzo Pirroni

(Nell’immagine in apertura: Rimini. Agosto 1964. Sante Gaiardoni, Campione del Mondo di velocità su pista, regola di misura Roberto Galimberti)

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