Visto che dopo la Svezia il futuro prossimo del calcio italiano non è dei più promettenti, meglio guardare al passato. Magari per ritrovare l’entusiasmo che ci faccia ripartire. Già, perché il calcio di una volta avrebbe ancora tanto da insegnare a quello di oggi. Lo crede fermamente Francesco Gabellini (classe 1942), commerciante e appassionato di sport, che per anni è stato cronista sportivo per Stadio-Corriere dello Sport, Settepiù e Radio San Marino. A Gabellini è sempre piaciuto scrivere di calcio, soprattutto, di quello della sua città. Ed è per questo che, qualche giorno fa – alla presenza del del giornalista e attore Giorgio Comaschi e di Eraldo Pecci, cattolichino illustre ed ex calciatore professionista di Torino, Napoli, Fiorentina e Bologna n- ha presentato nella sua Cattolica (al Salone Snaporaz), il suo libro “Lettera 22 a un calcio che non c’é più”.
Come mai ha deciso di scrivere questo libro?
«Ho deciso di metter mano ai miei ricordi, spinto dalle sollecitazioni di Fausto Caldari, il Presidente della BCC di Gradara, che ne ha promosso la realizzazione. Caldari è uno sportivo e nel suo passato è stato corrispondente del Resto del Carlino per quanto riguardava il calcio. Di scritti, ricordi, ne avevo parecchi, oltre ad un passato calcistico nelle squadre giovanili della Città. Il sottotitolo del libro è infatti ‘da rigorista del River a giornalista della domenica’. Il concetto fondamentale che mi ha guidato è la voglia di tramandare storie di un piccolo mondo, comunque ricco di rapporti personali, storie di paese che oramai sono sparite. Del resto le bellezze del calcio si possono percepire a tutti i livelli. Non c’è bisogno che i suoi protagonisti siano famosi e super pagati».
“Lettera 22”, si riferisce al famoso modello della macchina da scrivere della Olivetti, vero?
«Sì, esatto. La ‘Lettera 22’ è una Olivetti che ha fatto epoca. Era piccola, leggera e la si poteva usare ovunque, seduti sui gradoni di una stadio, con un foglio di carta qualsiasi. Una rivoluzione partita dagli anni ’50, un successo straordinario, un simbolo… ».
Lei nel suo libro racconta i momenti di un calcio passato, un po’ romantico. Quanto è cambiato quel mondo?
«Il calcio ha un linguaggio universale. Nel libro si racconta del Cattolica, dalle origini con testimonianze e foto, fino alla fine degli anni ’90, ma si potrebbe ambientare ovunque. Ci sono le sensazioni, i sentimenti che tutti quelli che hanno giocato, hanno vissuto e provato. Il calcio è cambiato, perché è cambiato tutto. Siamo cambiati noi, è cambiata la società, la vita ha un ritmo frenetico e non riusciamo più a ritrovarci attorno a sentimenti comuni. Oggi le relazioni si sviluppano più attorno a valori economici».
Con l’eliminazione subita dalla Svezia e la conseguente uscita dai Mondiali della nostra nazionale, prima ancora di entrarci, abbiamo toccato il fondo per quanto riguarda il nostro calcio. Secondo lei, da sportivo, quali sono state le cause di questa disfatta?
«Ognuno ha le sue idee, del resto bisogna tener conto dei molti fattori che concorrono a determinare una prestazione. Sarebbe potuta anche andar bene, ma non avrebbe cambiato nulla. La Svezia schierava degli elementi che avrebbero faticato ad essere titolari nelle nostre squadre minori. Per cui, se tanto mi tanto, se avessimo proseguito la nostra avventura, saremmo sicuramente andati incontro a delle figuracce contro nazionali più toste come Germania e Spagna. Tranne poche eccezioni, stiamo attraversando un’epoca contrassegnata da uomini mediocri, in campo e fuori».
Per ritornare a fare la voce grossa in Europa e nel Mondo, almeno a livello sportivo e calcistico, su cosa deve puntare l’Italia sportiva?
«Ci vorrebbe, non solo nel calcio, una cultura diversa e allora saremmo più autorevoli e rispettati. Oggi è il tempo degli slogan, della enfasi, dell’immagine senza concretezza. Dappertutto: in politica, nello sport, in tutta la società. La gente non vuol sentire, non vuole perder tempo a leggere, a confrontarsi. Le ritiene cose inutili. Invece secondo me ci vuole umiltà. Bisogna credere, appassionarsi e sacrificarsi. Con i soldi che girano è difficile, perché tutti si sentono dei divi e si comportano come tali».
Ritornando alla sua opera letteraria, si aspettava un’accoglienza così calorosa da parte del pubblico cattolichino alla presentazione?
«Devo dire che i cattolichini, anche non sportivi, sono molto legati alla cultura e alle tradizioni del Paese e hanno forse percepito che anche un libro sul calcio fosse un tassello della loro identità. Probabilmente, l’hanno ben accolto perché parla un linguaggio genuino, frutto della passione. Inoltre, sia Eraldo Pecci che Giorgio Comaschi, due grandi personaggi, lo hanno arricchito scrivendo entrambi qualche rigo di prefazione e devo ringraziarli molto per questo».
Ha già in mente il titolo del prossimo libro?
«Mah, mi piace scrivere, anche per me, ma per ora non ci penso».
Nicola Luccarelli