Cerca
Home > Eventi Cultura e Spettacoli > Rimini: una critica alla mostra di Graziano Villa al FAR

Rimini: una critica alla mostra di Graziano Villa al FAR

Si è aperta nelle prestigiose sale dell’Arengo, la mostra fotografica di Graziano Villa dal titolo E_MOTION. L’esposizione si inserisce nell’ambito di RIMINI FOTO D’AUTUNNO 2018 e si tratta di una antologia del celebre fotografo milanese che in quattro decenni di attività ha spaziato in tutti i generi possibili dell’arte dell’obiettivo, dallo still life al reportage etnico, dal ritratto all’architettura. Scorrendo le pregevolissime stampe della mostra, si ripercorre visivamente la storia di un’Italia lanciata verso il futuro, e del personaggi, tra i più eccellenti del secolo scorso, che hanno contribuito a costruire una stagione indimenticabile.

A corredo dell’evento riproponiamo la presentazione di Gianfranco Angelucci.

La mostra si chiuderà il prossimo 25 novembre.

GRAZIANO VILLA, LO SPAZIO MENTALE, IL GIOCO, L’IRONIA

Mirare, inquadrare, scattare, fermare il flusso del tempo in una sola immagine. Fotografare. Un’azione che oggi viene ripetuta in tutto il mondo miliardi di volte al minuto, forse al secondo, dai possessori di smartphone, con un semplice clic virtuale che riproduce fedelmente persino il tipico schiocco  dell’apertura e della chiusura dell’otturatore nelle vecchie fotocamere analogiche, a pellicola. Un’epoca scomparsa, passata in archivio con la rapidità di un battito di ciglia.

Cosa sia oggi la fotografia è arduo da definire, dal momento che a dominare su ogni altro genere di ripresa sono le immagini speculari dei selfie in cui ciascuno tende a ritrarre e ammirare incessantemente se stesso; simile in tutto a Narciso che tanto si adora scorgendo il riflesso del proprio volto  sulla superficie tersa dello stagno. Il mito ci insegna che amarsi troppo è pericoloso, e che se continuiamo a porre noi stessi al centro del creato, se continuiamo a tendere la mano per afferrare quel nostro sembiante sfuggente, rischiamo di perdere l’equilibrio, si sbilanciarci e cadere dall’altra parte dello specchio d’acqua. Come Narciso che miseramente vi affoga.

Il reverse angle del nostro telefonino è una funzione istantanea che appaga in pieno il nostro Ego, ponendoci al centro dell’universo mentre tutti gli altri corpi celesti o terreni ci girano intorno. Un’antirivoluzione copernicana, a pensarci bene, una visione ego-centrica della sfera celeste.

L’immagine imprigionata fino a ieri nei sali del nitrato d’argento, nella gelatina fotosensibile delle pellicole, ora è affidata a un sofisticato calcolo numerico – digit – a un suo equivalente digitale; il cui risultato è possibile manipolare e ri/definire a piacimento in post produzione tramite altri stupefacenti e invisibili interventi matematici che simulano ogni effetto della luce: intensità, contrasto, colore, incidenza, definizione. L’immagine che fino a ieri affiorava per gradi dai tempi di posa e dai bagni nell’acido, ora ci appare all’istante sullo schermo minuscolo del telefono portatile o su quello più ampio dell’iPAD,  grande quanto una lastra media da banco ottico.

La precedente tecnologia scompare. L’innocente alchimia della Polaroid fa pensare alle pietre piatte scolpite con la scrittura cuneiforme dagli Assiro Babilonesi, oppure ai geroglifici di Luxor o di Assuan. L’immagine di Anubis, il cane sacro ripreso di profilo, sarà un selfie oppure un ritratto posato concepito dal gran sacerdote e preteso dal Faraone?

La traduzione dei valori chimici in astruse cifre numeriche ha persino escluso l’ultimo – o il primo – degli elementi incorporei, è cioè l’intercapedine dell’aria, attraverso la cui trasparenza l’immagine si formava. Quell’aria oggi non c’è più, l’immagine nasce già sotto vuoto, e si vede.

Non capita anche a voi di stupirvi? A una stregoneria di tale sfrontatezza non avremmo creduto neppure se fossero venuti a raccontarcelo di persona la Fata Morgana e il Mago Merlino a braccetto!

Ma la tecnologia esiste, la tecnologia ci affranca dalla goffaggine ereditata dai primati a cui apparteniamo per discendenza genetica; e, solo per restare al nostro argomento, ci promuove anche, sul campo: siamo tutti fotografi! Todos caballeros! Non è più necessario conoscere gli obiettivi, gli angoli di visuale e le profondità che essi ci consentono; oppure a quanta luce le lenti permettono di entrare nella camera oscura, a quale velocità ciò debba avvenire per ottenere il risultato previsto, o quantomeno auspicato.

Basta mettere a fuoco – ma se ci dimentichiamo rimedia la macchina da sola, con un allineamento automatico – inquadrare e scattare.  L’esito è immediato e nella maggior parte dei casi soddisfacente. Quando non lo è, basta un clic a gettarla via nel bidone – iconico – degli scarti e ricominciare. Si va per tentativi, pressoché infiniti: qualcosa verrà fuori.

Il  rapporto personale, di colpo d’occhio, di gusto, di cultura, di armonia nei confronti del soggetto inquadrato è secondario, marginale, spesso irrilevante. Gli archivi di iCloud o di altri consimili sterminati depositi digitali, contengono miliardi di immagini che non interesseranno mai a nessuno; nessun ricercatore disporrebbe mai della quantità di tempo necessario per mettervi le mani. Tuttavia sono immagini che ci consegnano a una eternità virtuale, forse già profeticamente intuita da Adolfo Bioy Casares nel racconto L’invenzione di Morel, in perfetto stile Jorge Luis Borges. Sarà quella la nostra sopravvivenza a questa vita? Dovremmo augurarcelo?

Se domani arrivasse un’ App che ci permettesse di dipingere come Michelangelo o Van Gogh, riempiremmo il mondo di altri Giudizi Universali e vasi di Girasoli? E un’App che ci consentisse di scrivere come Tolstoj o Dante Alighieri, partorirebbe nuovi Guerra e Pace e Divine Commedie? E qualcuno potrebbe davvero vagheggiare di comporre musica all’altezza di Mozart e Beethoven?

A quali proporzioni sarebbe ricondotta la nostra creatività? A una interminabile replica ingegnosa e inerte di un’eccellenza che non ci compete?  Perfino il famoso scimpanzé Congo che dipingeva soggetti astratti con pennelli e colori, diventerebbe al confronto un’artista di meravigliosa originalità! Lo scienziato Desmond Morris aveva ragione! Al punto che lo stesso Mirò volle barattare un suo disegno per mettersi in salotto un quadro di Congo!

Noi quali fotografie metteremo in salotto?

Le fotografie di Graziano Villa certamente avrebbero un loro posto d’onore.

Ed è proprio a questo che volevo arrivare, alla mostra riminese nelle prestigiose sale dell’Arengo che l’autore, da vero maestro, ha voluto trasformare anche in un palcoscenico per i tuoi allievi della scuola di fotografia.

Dietro la sua figura monumentale, artistica ma anche fisica, palpita un cuore da fratello maggiore; di chi crede che l’arte non sia altro che un passaggio di testimone. Il più angelico degli umani privilegi.

Dopo la Mostra “Roma Caput Mundi”, e quella dedicata a “La Grandeur di Parigi” – i cui estrosi cataloghi ho qui accanto a me – adesso si inaugura a Rimini una sua “personale”; e non sarà stato facile ricavare una selezione esauriente da tutta la produzione che Graziano Villa ha alle spalle: di ritrattista, creativo di pubblicità, cacciatore inesausto di paesaggi, di scorci urbani, di strutture architettoniche, di dimore esotiche, di skyline metropolitani, di monumenti, e poi di personaggi celebri della finanza, dell’economia, della politica, dell’imprenditoria, di divi e modelle, di star del design, del gioiello, della moda e del Made in Italy.

Se i critici accreditati tendono a mettere in risalto oggi la sua inclinazione alla geometria, alla reinvenzione delle linee spaziali – e lo trovo legittimo, è una delle prime caratteristiche che accendono la curiosità dell’osservatore – a me sembra di percepire, dirò uno sproposito, che la fotografia gli sia diventata alquanto stretta: Graziano ne utilizza la tecnica, che con la sua perizia sa rendere duttile come cera, ma allo scopo di trasfigurarla in altri linguaggi, in altre espressioni ed emozioni.

Forse è ormai per lui lontana, non nel tempo ma nella coscienza, l’esaltante stagione milanese in cui la fotografia era anche la radiografia di un’epoca scintillante, lanciata verso un ottimismo radioso e imperituro, verrebbe da dire cromosomico nell’italiano del boom economico, della Milano da bere, della corsa senza complessi verso una nobile collocazione in Europa e perché no, nel mondo.

Riguardando con attenzione  i suoi ritratti, il gioco che sempre vi è sotteso per evitare che essi rispondano passivamente a un vezzo esibizionistico, di autocompiacimento, ma al contrario ogni volto, ogni sembiante,  si illumini innanzitutto di umana autenticità,  mi rendo conto come già nei decenni scorsi l’autore covasse la ‘ribellione’ figurativa che passo dopo passo è venuta configurandosi con sempre maggiore urgenza ed esigenza.

Nella sua fotografia è celato un gusto grafico che insorge e infine predomina, producendo ‘quadri’ che non sono né naturalistici, ovviamente, a imitazione della natura, né tantomeno impressionistici, bensì simbolici con una forte componente espressionista. Il ‘materiale’ fotografico è pur sempre all’origine dell’ispirazione, ma nello stesso tempo si impone con una dimensione diversa.

La luce viene scansionata, dissezionata, scomposta e ricomposta in linee, a volte con suggestioni – come viene sottolineato anche nei titoli – “metafisiche”.

Penso alle immagini molteplici de La Concorde Métaphysique a Parigi; all’Arbre Magique della Tour Eiffel, a Le Pouvoir de La Tour n. 1, alla Piramide del Museo del Louvre. Penso a Via della Conciliazione e alla Basilica di San Pietro, a Roma, o alla Fontana di Trevi, o agli archi e ai laterizi del plurimillenario Acquedotto Appio.

Graziano Villa non rilegge per noi gli oggetti della sua fotografia, non li interpreta, non li ripropone, semplicemente li ‘guarda’ con un altro occhio; li avvolge di luce come Christo, il celebre land artist, li impacchetta in teli di plastica e tiranti elastici. L’autore cancella con i suoi interventi la loro patina di assuefazione, la vieta consuetudine, la vuota retorica delle cartoline, la tediosa magniloquenza degli eruditi; rimuove la polvere dagli occhi “stanchi di non guardare” e li costringe a una diversa messa a fuoco, a una salutare riscoperta attraverso invisibili lenti maliziose. Ci porge allegramente un paio di occhiali deformanti che possiedono una prerogativa particolarmente rara, il sorriso sfuggente dell’ironia: un atteggiamento celatamente ludico, una voglia persistente di stupirsi per primo, con umiltà, di fronte al proprio pubblico che, bisogna dirlo, si incanta volentieri ai trucchi dell’illusionista.

Vogliamo dire che le sue fotografie sono già anche delle ‘istallazioni’? Che il prossimo passo verso la scoperta dell’ignoto, intrinseco e inevitabile per ogni vero artista, sarà forse in quella direzione?

Noi lo azzardiamo, ma senza alcun imbarazzo di essere smentiti, perché la sua imprevedibilità è quasi altrettanto accattivante delle sue invenzioni.

Graziano ci sorprenderà ancora, come ha sempre fatto e gli auguriamo di continuare a fare, felice del proprio talento.

Gianfranco Angelucci

Ultimi Articoli

Scroll Up