Ho visitato la mostra “Fellini 100” a Castelsismondo e l’ho trovata equilibrata ed efficace. Ma scendendo verso piazza Cavour ho visto lo slogan del centenario che campeggia all’ingresso: “Rimini la città della Dolce Vita”.
Premetto che la mia prima campagna elettorale per il Comune di Rimini, nel lontano 1990, aveva come slogan “Rimini città dolce”, L’aggettivo “dolce” era usato in funzione oppositiva a quel “Rimini come Las Vegas”, lo slogan che aveva caratterizzato l’ultima parte degli anni ’80 lasciandoci non pochi problemi. “Dolce” voleva raccontare di una città civile che ha alcuni valori da trasmettere, in cui si vive bene, dove possono convivere bambini, ragazzi ed anziani senza farsi del male.
Il problema è che lo slogan “Rimini città della Dolce Vita”, è sbagliato ed ha un significato che credo vada al di là del pensiero di chi lo ha inventato. Cercherò di spiegarmi.
Com’è noto, l’uscita del film nel 1959 suscitò scandalo a tal punto che mise in allarme la Chiesa Cattolica. Il Cardinale Montini, futuro Paolo VI, invocò esplicitamente l’intervento della censura. Padre Arpa, un gesuita coltissimo, amico di Fellini, chiese aiuto al potente cardinale Siri che ottenne una visione privata, capì il messaggio del film e lo “riabilitò” permettendo a tutti noi di vedere uno dei capolavori dell’arte cinematografica. Da notare il fatto che Siri, arcivescovo di Genova, apparteneva all’ala più conservatrice della Chiesa.
Perché allora si espose per difendere Fellini?
Naturalmente il film e la polemica partita da chi ne chiedeva la censura, furono al centro di un acceso dibattito negli ambienti culturali dell’epoca. Ci illumina un articolo di Pier Paolo Pasolini su Filmcritica (XI, 1960) nel quale, riferendosi a “La Dolce Vita”, scrive: “…il più assoluto ed alto dei prodotti cattolici di questi ultimi anni…Prendete in considerazione la Roma che descrive. Sarebbe difficile immaginare un mondo più arido. E’ un’aridità che porta via la vita, che tormenta. Vediamo passare davanti ai nostri occhi un mare di personaggi mortificanti…sono tutti cinici, tutti codardi, tutti servili, tutti spaventati, tutti sciocchi, tutti miserabili, tutti qualunquisti…ma non c’è nessuno di questi personaggi che non sia pieno di energia nel tentativo di sopravvivere”.
Non sarà mica questa la Rimini di oggi?
Fellini usa l’aggettivo “dolce” in tono sarcastico, lasciando intravvedere un’amarezza di fondo, come d’altra parte ci dice l’ultima scena del film. Marcello, reduce dall’orgetta nella villa sul mare, inquietato dall’occhio del mostro marino spiaggiato (proprio come era successo a Rimini nel 1934), non è in grado di sentire la voce di Paola (Valeria Ciangottini) che nel film rappresenta la perduta semplicità della provincia.
Ecco perché quello slogan dal punto di vista del marketing non corrisponde a ciò che oggi è la nostra città e ai valori che intende trasmettere. Dal punto di vista delle celebrazioni del centenario è semplicemente un equivoco, non rappresenta ciò che Fellini intendeva dire parlando della Roma degli anni cinquanta. Città che egli vede in preda ad una torsione morale implicita nel passaggio dalla civiltà contadina della grande “provincia” italiana, alla civiltà industriale nascente che produce “città” senza valori.
L’equivoco conferma, se ce n’era bisogno, l’indispensabile “delicatezza” da usare quando si affronta l’opera di Fellini.
Ennio Flaiano, provinciale e “adriatico” (era di Pescara) come Fellini, come lui romano d’adozione, collaborò alla sceneggiatura della Dolce Vita. In “La solitudine del satiro”, riferendosi agli anni ’60 e ’70, dirà: “Mai epoca fu tanto favorevole ai narcisi e agli esibizionisti. Dovremo accontentarci di morire in odore di pubblicità”.
Giuseppe Chicchi