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Rimini, alla Grotta Rossa scoperta la tomba di un principe guerriero con il suo carro

Lì hanno trovato qualcosa. Qualcosa di grosso, di raro e di sicuro molto, ma molto antico. Le voci corrono alla Grotta Rossa almeno dall’inizio dell’anno, quando i residenti hanno notato che in un cantiere dove si scavavano le fondazioni di un nuovo edificio privato erano arrivati anche gli archeologi. Che si sono fermati parecchio tempo, misurando, fotografando, portando alla luce con cautela e impacchettando diversi oggetti.

Ora il lavoro degli specialisti sul campo è concluso ed è ripreso quello dei muratori. Intanto però il mistero resta. Cosa è stato trovato? Bocche cucite alla Sovrintendenza di Ravenna. Fanno sapere solo che ci si riserva di spiegare tutto una volta terminati gli studi sui reperti.

Però certe cose nel quartiere le sanno tutti. Di sicuro le ruspe si sono fermate quando hanno incontrato resti umani e parecchi frammenti di ceramica. Delle tombe dunque. E fin qui la sorpresa non è grande, perché di sepolture alla Grotta Rossa sono state trovate più volte in passato. Risalenti al medio evo, all’epoca romana e anche più indietro. Oltre a una quantità di frammenti che arrivano addirittura alla preistoria, passando per tutti popoli che si sono succeduti da queste parti. I Romani, appunto, e prima i Celti, gli Umbri, gli Etruschi e i “villanoviani” di Verucchio, ormai identificati come proto-Etruschi anche loro. Senza contare le tracce dei Greci, probabilmente mercanti che scambiavano le loro merci all’approdo di quella che sarà poi Ariminum. Non di rado nello stesso strato sono saltate fuori le prove che genti di diversa provenienza convivevano a breve distanza o addirittura insieme. A conferma che questa è sempre stata un’area di confine, ma non necessariamente di conflitti.

Carro etrusco in bronzo da parata da Monteleone di Spoleto del VI sec.C. (New York, Metropolitan Museum of Art)

Ma questa volta la scoperta ha fatto sobbalzare gli archeologi. Non è una tomba qualsiasi quella che è stata trovata insieme a tanto altro materiale di diverse epoche. Si tratterebbe con ogni probabilità del sepolcro di un capo guerriero. La tracce del corredo funerario lasciano pochi dubbi in proposito, perché dai reperti si è capito che lì assieme al defunto era stato sepolto il suo carro da combattimento.

Un principe, dunque. Ma di quale epoca? E di quale popolo? E’ la prima volta che a Rimini e dintorni viene trovata una tomba con un carro. Ma è accaduto non  tanto distante. I reperti in metallo che si erano conservati hanno svelato che una biga da guerra era stata inumata in una tomba ritrovata nel 2018 nell’importantissima area di San Giovanni in Compito, presso Savignano sul Rubicone. E ora al Museo Archeologico del Compito “Don Giorgio Franchini” di Savignano si trovano due terminali di carro con figura umana in bronzo. Questo carro è stato datato al VII secolo a.C. e attribuito al popolo dei Piceni.

La tomba di San Giovanni in Compito dove si riconoscono i cerchi in ferro di un carro

Come era un carro del VII secolo? A due ruote, trainato da cavalli, poteva essere un calesse dove si stava seduti o una biga da condurre in piedi. Fabbricato in legno, le ruote a raggi erano dotate di cerchi in ferro, che di solito sono gli unici elementi che arrivano fino a noi insieme ad altre parti metalliche: ornamenti e finimenti dei cavalli, armi e parti di esse. Un sottile graticcio sosteneva gli occupanti, che di solito erano due come si vede in tantissime raffigurazioni dell’area mediterranea e in medio oriente fin dal II millennio a.C. Mentre l’auriga guidava, il guerriero combatteva con l’arco, la lancia o la mazza. Più precisamente, come scrive Barry Strauss (“La guerra di Troia” – Laterza, 2006), “Il carro era un po’ carro armato un po’ jeep, e un po’ camion per il trasporto di uomini armati”. Ne esistevano però anche versioni “limousine”, come il fantastico carro da parata etrusco interamente ricoperto da raffinate lamine in bronzo, scoperto – e trafugato – presso Spoleto nel 1902.

Carro da guerra piceno parzialmente ricostruito nel Museo Nazionale delle Marche di Ancona; proviene da Novilara presso Pesaro

Seppellire il carro insieme al suo eminente proprietario, fosse un re, un sacerdote o un capo guerriero – e potevano coincidere nella stessa persona – era un’usanza praticata da moltissimi popoli, compresi Celti ed Etruschi, tanto per restare da quelli che abitarono i nostri paraggi. Ma senza dubbio le testimonianze più prossime a Rimini fin qui emerse sono quelle dei Piceni. Questo lembo dell’attuale Romagna doveva essere stato l’estremo limite settentrionale della loro espansione: in conflitto ma anche, parrebbe, in pacifica coabitazione con i vicini.

Ma nel cuore del loro territorio, che secondo gli antichi si stendeva fra le valli del fiume Foglia nelle Marche e dell’Aterno in Abruzzo, in fatto di carri la scoperte sono state davvero clamorose. La più spettacolare  avvenne durante gli scavi del 1909-11 a Belmonte Piceno, oggi in provincia Fermo: una decina di tombe ciascuna contenente un carro. E una, che fu detta “la tomba del duce”, dove ne erano stati sepolti addirittura sei. I sepolcri potevano appartenere sia a uomini che a donne. Re e regine? Proprio in quella che fu battezzata “tomba della Regina” di Numana-Sirolo di carri ce n’erano due. Un’altra biga principesca è emersa nell’enigmatico sito di Novilara, sulla collina di Pesaro. Qui, anche per la misteriosa scrittura non ancora decifrata che appare sulle celebri steli, non è certo se gli abitanti fossero propriamente dei Piceni – anche se gli elementi in comune appaiono moltissimi – o una tribù illirica sbarcata dall’altra riva dell’Adriatico e poi più o meno integrata con gli indigeni. Ancora, c’erano carri nelle tombe picene scavate Grottazzolina, di nuovo nel fermano, e a Corinaldo in provincia di Ancona.

La biga, il corredo funerario e lo scheletro di Monteleone Piceno

I Piceni, raccontavano gli antichi, appartenevano al grande popolo degli Umbri, indoeuropei arrivati in Italia forse nel XII secolo prima di Cristo. La loro tradizione voleva che periodicamente un’intera generazione di giovani dovesse lasciare la tribù per guadagnarsi una terra altrove. Si chiamava Ver Sacrum, “primavera sacra”, quella in cui i ragazzi dovevano seguire l’animale totemico individuato dai sacerdoti, che li avrebbe guidati alla loro nuova patria. Per gli Irpini sarebbe stato il lupo (hirpus in lingua osco-umbra), per gli Equi il cavallo (ekvo), mentre i sanniti Pentri avrebbero fondato la città di Bovianum seguendo un bue e i sanniti Caudini avrebbero fondato Abella (Avella) seguendo un aber, cioè un cinghiale.

Il celeberrimo “guerriero di Capestrano” che raffigurerebbe un eroe piceno del VI secolo a.C. (Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo, Chieti)

Nella piana di Norcia, fu un uccello a guidare la migrazione: il picchio (picus, da cui Picenes o Picentes) che condusse giovani guerrieri al di là degli impervi Sibillini. Superata la cresta dell’Appennino, si presero come nuova dimora la valle del Tronto, dove Ausculum (Ascoli) fu subito il loro centro più importante e Cupra il santuario “nazionale”. Di primavera in primavera, si deve certamente al “quelli del picchio” anche la nascita di Pesaro. Ma secondo Plinio sarebbero stati degli Umbri a fondare anche Rimini, Ravenna e Budrio; mancano però finora le prove archeologiche. Inoltre alcuni storici antichi quando parlano delle aree padane sembrano confondere gli Umbri con gli Etruschi, con i quali devono esserci stati scambi intensi e anche mescolanze: così Servio attribuisce agli Umbri perfino la fondazione di Mantova, che tutti gli altri dicono etrusca. Le armi picene ritrovate nelle tombe proto-etrusche di Verucchio (X-VIII sec. a.C.) sembrano però prede di guerra o doni diplomatici fra popoli ben distinti, più che frutto di fusioni fra genti differenti.

Pettorale piceno in bronzo trovato a Numana (Museo archeologico nazionale di Ancona)

I Piceni verso il V secolo a.C. furono ricacciati a sud dell’Esino dai Senoni, ultimo dei popoli celtici che avevano preso a scendere dall’Europa centrale già da qualche secolo. Vicino a quel confine, Senigallia fu la loro base principale. Proprio quei Galli che guidati da “Brenno” avrebbero sconfitto e umiliato Roma, fino a metterne in dubbio l’esistenza stessa. Solo un secolo dopo i Romani si sarebbero presi la rivincita definitiva sterminando i Senoni e i loro alleati Etruschi, Sanniti e Umbri nella “battaglia delle nazioni” presso Sentinum (Sassoferrato). In quello scontro decisivo, l’unico popolo italico che si schierò con i Romani fu quello dei Piceni. La via per la conquista della Valle del Po era aperta. E la prima colonia romana a nord dell’Appennino si chiamò Ariminum.

Esisteva già un abitato con quel nome, derivato dal fiume Marecchia che si diceva Ariminus? Non lo sappiamo. Sappiamo però che le colline di Covignano erano intensamente frequentate fin dalla più remota preistoria e ancora di più durante l’età del Bronzo (2.300 -1.000 a. C.) e quella del Ferro (che convenzionalmente finisce con l’espansione romana). Sulle ultime alture in vista del mare, ideali per la vite e l’ulivo e dominanti fertili campi di cereali, c’erano sorgenti e santuari, villaggi e necropoli. E la Grotta Rossa di allora faceva sicuramente parte di quel sistema di insediamenti.

Abitati da chi, nel periodo a cui appartiene il carro della Grotta Rossa? Piceni, Etruschi o un altro popolo ancora sconosciuto? Non i Galli perché giunsero dopo, fosse anche questa una testimonianza del VII secolo. Solo gli esami in corso alla Sovrintendenza di Ravenna sapranno dare delle risposte. Intanto i reperti sono al vaglio della dottoressa Annalisa Pozzi, la stessa studiosa che aveva identificato e descritto il carro piceno di San Giovanni in Compito.

L’area di Covignano segnata in rosso scuro (massimo interesse) nella “Carta delle potenzialità archeologiche” del Comune di Rimini; la Grotta Rossa, evidenziata in blu, è classificata fra quelle di medio interesse

Stefano Cicchetti

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