Siccità che non dà tregua e minaccia di ripetersi sempre più spesso. La provincia di Rimini finora soffre meno di altri territori grazie al suo tesoro nascosto, ma non è il caso di stare con le mani e in mano. E a chi propone di costruire dighe sul Marecchia per creare nuovi invasi, c’è chi risponde con soluzioni del tutto diverse. Che dopo anni di studio sembrano ormai avviate a concretizzarsi.
In campo c’è Romagna Acque e fra i progettisti c’è Riccardo Santolini, che ci sta lavorando dal 1994. Per una “gestione naturale degli ecosistemi” che tagli gli sprechi e preservi la più grande ricchezza che questa fetta di Romagna possiede: la conoide del Marecchia.
Come? “Partiamo dai numeri – spiega Santolini – La diga di Ridracoli può contenere 33 milioni di metri cubi d’acqua. La conoide del Marecchia vale quasi tre Ridracoli, 100 milioni di metri cubi. Altro dato, ogni anno ne versiamo in mare altri 30 milioni: sono le acque del depuratore di Santa Giustina, non tutte uilizzabili, ma in parte sì se opportunamente trattate”.
Cos’è esattamente la conoide? “E’ un triangolo che approssivativamente ha per lati Bellaria, Rimini e Verucchio. Un sistema di vene sotterranee, fino a 300 metri, che grazie alla conformazione geologica è in grado di trattenere quell’enorme quantità g’acqua che si diceva. Ed è proprio questo il nostro incommensurabile tesoro blu, da sempre”.
E’ quello che nei secoli ha fatto del riminese una specie di giardino delle delizie, un “paradiso terrestre”. Così lo descrivevano estasiati i dotti del luogo, come il Clementini e l’Adimari nel Seicento: qui cresce di tutto, la vite e l’olivo, la frutta di ogni tipo e gli ortaggi, l’erba e il bosco che nutrono gli animali, i cereali per il pane e la canapa per i cordami. Perchè? Grazie all’acqua. Che sgorga fonti rinomate e venerate come la Sacramora e la Galvanina, E’ Surcioun di Viserba e come la Pantera di Rivabella, incontenibili perfino sulla riva del mare.
Al netto del campanilismo, è vero che in un territorio ristretto si ritrova una varietà non comune di colture e ambienti. E che, quanto all’acqua, quasiasi riminese è abitatuto a vedere un pozzo in ogni aia. Di più: da queste parti c’era un pozzo almeno in ogni isolato della stessa città di Rimini, se non in ogni casa. Anche per questo motivo l’unico acquedotto, quello costruito dai romani per alimentare la fontana della piazza, bastò ai riminesi fino ai primi del Novecento. Mentre tutt’ora l’acqua della falda viene prelevata, più o meno legalmente – occorrerebbe un’apposita concessione – non solo dagli agricoltori, ma anche da hotel per le loro piscine oltre che da privati cittadini. Viviamo insomma come normale una stuazione da privilegiati: ne sanno qualcosa le tante regioni italiane dove invece la normalità è ancora rappresentata dalle vasche di raccolta condominiale dove l’acqua va conservata gelosamente, se e quando arriva.
Ma l’acqua della falda del Marecchia finisce soprattutto nell’acquedotto. Anche ora, solo il 38% di quella che esce dai rubinetti riminesi giunge da Ridracoli, il restante 62% viene prelevato sul posto, comprendendo anche l’invaso del Conca. Mentre poco affidamento c’è da fare sul Canale Emiliano-Romagnolo, che serve soprattutto all’agricoltura ma va rifornirsi dal Po: le cronache di questi giorni spiegano a suffcienza cosa significhi, soprattutto in prospettiva.
Quell’altra Ridracoli che buttiamo in mare, quei 30 milioni di metri cubi scaricati dal depuratore, possono dunque essere riutilizzati? “Non tutti – risponde Santolini – però possiamo preservarne una parte. E’ questo il progetto di Romagna Acque, che ormai ha imboccato la dirittura d’arrivo. Grazie alle tecniche di depurazione più avanzate, almeno 2 milioni di mc possono essere recuperati”.
Per farne cosa? “Non certo immettendole direttamente in acquedotto, ma restituendole al Marecchia. In sei laghi artificiali che già esistono per usarli come invasi di riserva. Il primo beneficiario sarebbe il fiume stesso, che negli ultimi anni si è dovuto scavare un canyon a causa dall’abbassarsi della falda. Livello e corrente riprenderebbero la forza perduta, con tutte le consegienze positive sugli ambienti naturali e la biodiversità. In parole povere, ci creiamo le riserve d’acqua aiutiando la natura a fare il suo mestiere. Ma non è tutto”.
Cioè? “Il Consorzio di Bonifica ha ottenuto un finanziamento del PNRR per l’utilizzo, sempre a questi scopi, delle ex cave sulla riva destra del fiume. Siccome il nostro progetto invece riguarda la riva sinistra, coordinandoci possiamo raddoppiare la quantità di acqua recuperata: 4 milioni di metri cubi. Consentiranno alla conoide di non sprofondare, tenendo anche a bada l’intrusione della acque del mare”.
Quanto costa tutto questo? E perchè saremmo in drittura d’arrivo? “Siamo fra i 9 e i 10 milioni. E siamo vicini alla svolta decisiva perchè l’operazione si finanzia anche con un prelievo sulle bollette. Per fare ciò occorre il via libera dell’ATERSIR, l’ente regolatore delle tariffe. Confido che questo ok possa arrivare entro un mese. Dopo di che potrà partire la progettazione esecutiva”.
Ma dai progetti alle opere non si sa quanto tempo può passare, o no? “In questo caso c’è l’opportunità del PNRR che finanzia il Consorzio di Bonifica. Agganciandosi a quel progetto, abbiamo la certezza che i soldi dovranno essere spesi entro il 2026, così come prevedono le condizioni poste dall’Europa”.
Niente dighe allora? “Artcolo 9 della Costituzione: ‘la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni’. Con il nostro progetto attuiamo in pieno questo principio. Non potrei dire altrettanto di soluzioni invasive, ma soprattutto temporanee. A Rimini fra tante fortune abbiamo anche quella di possedere un tesoro blu: credo sia nostro primo dovere trattarlo meglio che possiamo”.
Stefano Cicchetti