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Il ridicolo delle cose serie

Come discutere di cosa è ridicolo oggi? In questi giorni almeno due sono le alternative al riguardo. Da una parte le polemiche scaturite dalle vignette infelici di qualche disegnatore satirico, dall’altra le affermazioni, consentitemi, spesso ridicole riportate dai giornali su temi estremamente seri.

Il dibattito sul primo argomento non mi appassiona, e lascio ai fustigatori professionisti, invero in buona parte ondivaghi nel tempo, le valutazioni in merito.

Invece il secondo tema, anzi metatema, è assolutamente insostenibile, a mio avviso. Da tempo chi opera con l’economia reale e l’analisi economica si rende conto di quanto tutto sia strumentalizzabile.

Occupati ed inoccupati, PIL e frenate, risultati di interi settori bloccati dall’assenza di logica sistemica (vogliamo parlare del turismo in superdistretti cruciali come la Romagna?), su queste tematiche ogni argomento porta a pareri i più disparati pur partendo dalle stesse informazioni di base. Pluralismo delle opinioni, certo. Cuore della democrazia. Del resto come farebbero gli Scanzi, i Travaglio, i Gasparri, i Salvini, i Carbone, ad avere spazio mediatico se ciò non fosse consentito? Però c’è un limite, ed è quello delle complete assurdità. Dei nessi causa-effetto ribaltati o semplicemente sconnessi. Dell’informazione banalizzata, consciamente o (forse peggio ancora) inconsciamente.
Ecco un titolo dal Corriere della Sera di qualche giorno fa: Storchi, Federmeccanica, “Giù le tasse per aumentare la produttività“.

Fermiamoci al titolo, come fanno il 70% dei lettori dei giornali.
Ohibò! Da quando in qua tasse e produttività sono collegate in maniera inversamente proporzionale?

Se usassimo il buon senso, diremmo che piuttosto dovrebbe essere vero il contrario. Ad un aumento di imposizione fiscale si dovrebbe reagire con un aumento di produttività per provare ad ottenere un miglior risultato dalla singola operazione economica e quindi aumentare, obtorto collo, il reddito post tasse, per mantenere il ROI netto ad un determinato livello.In realtà, le due “variabili economiche” (una di politica economica – le tasse, una di economia politica – la produttività”) non sono a priori collegabili in alcun modo logico. La produttività è frutto di un rapporto tra un output di prodotto/servizio/semilavorato in un periodo di tempo ed un input di risorse (che serve per originare quell’output) sulle quali misurare la produttività stessa. La produttività delle vendite per ora lavorata, per esempio, è data dal rapporto (valore vendite/ore totali lavorate), valido per unità operative specifiche; e così via.

Io non sono un teorico della produttività a tutti i costi. Preferisco indicatori come il reddito netto assoluto, oppure il throughput (valore del flusso di trasformazione al netto dei costi di realizzazione).

Mi spiego con un esempio di vita vissuta.

Negli anni Novanta dirigevo la divisione più profittevole nel nostro settore d’attività a livello nazionale, ambito distribuzione alimentare. Non avevamo la migliore produttività per ora lavorata, ma il livello di servizio che fornivamo ai clienti portava a volumi e valori di vendite molto alti. Rispetto ai costi operativi globali, eravamo leader. Poi subentrò una corrente di pensiero che sosteneva la tesi della produttività delle ore lavorate a tutti i costi, e con quali scelte? Ridurre le ore lavorate. Risultato? La diminuzione del servizio, con conseguente diminuzione delle vendite, e riduzione del risultato rispetto ai costi operativi.

Inoltre Thomas Piketty nel suo monumentale lavoro sul Capitale del 21° secolo ci ha dimostrato come una diminuzione di tasse senza adeguate scelte di riferimento in termini di politica economica corre il rischio di portare solamente ad un aumento della rendita di capitale e di conseguenza produrre ulteriore diseguaglianza sociale.

Voglio assegnare al rappresentante di Federmeccanica la buona fede e segnalo la possibilità che il titolo dell’articolo non rappresenti il pensiero dello stesso. Però almeno il giornalista dovrebbe avere chiari i concetti base di questi argomenti, ed esprimersi per contribuire a fare chiarezza nei lettori.

Signori, il ridicolo impera, in un contesto di culture frantumate, ideologie dissolte, valori spezzati, leadership a volte imbarazzanti (gli USA potrebbero esserne esempio massimo tra poco).

E di conseguenza, se non facciamo chiarezza tra significato e significante, ci capiremo sempre meno.

La torre di Babele non pare troppo lontana. La Leggenda potrebbe diventare Storia.

Ma cos’è la Storia? E il pensiero non può che correre ad Hegel, rammentando che la Storia ci insegna che (purtroppo dico io) la Storia non insegna niente a nessuno.

Maurizio Morini
Consulente e Docente in Economia e Management

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