Francesco Gabellini: “Ogni ferita” – Scatole parlanti.
E’ questa la prima opera narrativa di Francesco Gabellini, una delle voci oggi più rilevanti della poesia in dialetto romagnolo (autore di sei raccolte poetiche, l’ultima delle quali, “Nivère”, pubblicata da Raffaelli nel 2021).
Gabellini a settembre 2022 è risultato vincitore nazionale del prestigioso Premio Pascoli nella sezione della poesia edita in dialetto bandito da SammauroIndustria. Ma è anche autore teatrale: con il monologo in dialetto romagnolo “L’ultimo sarto” è stato finalista nel 2005 del Premio Riccione per il teatro; nel 2010 e 2011 il monologo “Detector” è stato portato in scena dall’attore Ivano Marescotti in vari teatri d’Italia. Nel 2016 ha pubblicato il libro che raccoglie cinque suoi monologhi, sempre in dialetto romagnolo, dal titolo “Zimmer frei” edito da Il Vicolo Editore di Cesena.
“Ogni ferita” tratta di una vicenda ambientata negli anni Sessanta, in una città del Nord Italia. La storia di un amore impossibile, dove i giovani protagonisti, in dissidio con le famiglie d’origine che non sono state in grado di superare le divisioni del passato e gli orrori della guerra, si trovano a fare i conti con una pesante eredità, una sorta di debito da pagare al passato, ai propri padri, che impedisce la loro piena realizzazione sociale e sentimentale. Trentaquattro brevi capitoli per un romanzo dalla prosa essenziale, che non fa uso di descrizioni o metafore, ma che va diritto al cuore nel descrivere fatti, situazioni, sentimenti.
Così la bandella del libro. Una descrizione che in realtà non riesce più di tanto a dire del linguaggio crudo, duro usato da Gabellini, ma neanche delle situazioni scabrose, violente che vivono i protagonisti del racconto. Il protagonista è il giovane Enrico (il suo nome lo apprendiamo solo nell’ultima riga del testo), sua madre (di cui non ci è rivelato il nome), la zia Doda e il suo compagno Walter (il capo operaio del mattatoio), Maccaferri il “boia” (il fascista torturatore: “ne ha ammazzati decine. E non solo ammazzati, li ha torturati”) e le sue due figlie Ester (terrorista uccisa mentre preparava una bomba) e Noemi (la ragazza di cui si è innamorato Enrico e che finisce in carcere con l’accusa, non si sa quanto vera, di essere la responsabile della morte della sorella).
Enrico è nato dopo la guerra in cui il padre partigiano, catturato, è stato ucciso dal torturatore fascista Maccaferri. Lo stesso che poi sevizierà anche la madre, incinta, rendendola muta per sempre (“La spogliarono, la legarono e lui fece quello che voleva del suo corpo”). Maccaferri usufruirà dell’amnistia ai fascisti e tornerà libero, rifugiandosi in un piccolo paesino di montagna, in una baita isolata.
Gabellini, capitolo dopo capitolo, ci racconterà le storie di ognuno di loro, ma lasciandone molte aperte, senza una fine per ciascuna di queste, consegnandole pertanto alla fantasia del lettore.
Enrico, in prima pagina, afferma: “Non sono mai stato un bambino. Neanche quando ero piccolo”. E poi racconta del suo lavoro al mattatoio: “Ci vado a lavorare, ma non sempre. Solo quando arrivano i camion. Io lavo il pavimento con la gomma. Mi piace cancellare le tracce del sangue. Faccio un fiume rosso, certe volte. Poi lavo i ganci, i coltelli, tolgo le tracce di quello che è successo. E trasporto anche carriole piene di budella e fegati, polmoni e cuori. Non li buttiamo via. Semplicemente hanno una lavorazione diversa. Vanno nel laboratorio numero tre. E io là li porto”.
Il 24 agosto è l’anniversario dell’uccisione del padre. Il prete, don Mario, ogni anno diceva: “Tuo padre l’hanno ammazzato perché amava la libertà. Tuo padre sapeva da che parte stava il bene e ha dato la sua vita per difenderlo”. Ma Enrico insisteva: “Ma cosa è successo?”. E la risposta immancabilmente era: “Lo hanno ucciso. Non posso dirti di più. L’ho promesso a tua mamma. E poi non servirebbe a niente conoscere i dettagli”. Ma ad Enrico questa assenza del padre pesa: “Non riesco ad amare mio padre. A provare orgoglio o anche solo simpatia per il suo ricordo. Perché non ho un suo ricordo. Non l’ho mai conosciuto. Per me non è mai esistito. Perciò ce l’ho con lui, perché non c’è mai stato. Dov’era quando io avevo bisogno di lui? Quando avevo paura e lo cercavo, lui dov’era? Perché non c’era? Non riesco a perdonargli la sua assenza”.
Il rapporto con la madre è complicato, oltre che dalle mancanze di parole, da un possesso in tutti i sensi del figlio. “Le sere lei mi stringe forte, sale sopra di me, mi picchia col cuscino. Mi morde e io mordo lei. Ci prendiamo a morsi su tutto il corpo. Siamo il nostro pane. Io il suo e lei il mio. Passata la furia, ci lecchiamo. Siamo gelati. Lei gioca col mio cazzo come fosse quello di un bambino. Come fosse lui un bambino. Lo bagna e poi lo asciuga. Lo prende a schiaffi e lo riempie di carezze. Lo bacia, lo ama. E’ il suo bambino e il suo uomo. Quando lui è rigido come un ramo, lei si offre. Spalanca le cosce, ma è solo un gioco. Entro dentro di lei, ma non completamente. Lei stringe. Non permette. E’ mia madre. Certe volte. La mia donna, altre volte”.
E poi l’incontro con Noemi. “Non mi odi?”. “No”. “Sai chi sono? Sai chi è mio padre?”. Le sue colpe le “senti trasmesse a te perché porti il nome di tuo padre, perché il suo sangue scorre anche nelle tue vene …”.
E allora “a un certo punto ho pensato che l’unico modo per poter… continuare a vivere, perché di questo si tratta, di continuare a vivere. Mi sentivo che… per i fatti con i quali io non c’entravo niente, la mia vita non fosse mia. Non potessi viverla. Ho pensato che l’unica possibilità fosse chiedere scusa a tutti. A tutti quelli che sono riuscita a rintracciare. Ho fatto delle ricerche. La mia vita è diventata questo. Chiedere scusa”.
Ed infine l’incontro di Enrico con Maccaferri, trovato in fin di vita, solo e abbandonato, nella baita in montagna: “Perché non mi hai lasciato morire” mi chiede. “Lei deve vivere” rispondo. “Quando avrai finito col tuo lavoro, ti racconterò”. “Non serve. Già so.”. “Voglio raccontarti tutto. Poi mi ucciderai. Vedrai”. “Lei deve vivere”.
Enrico non crede alle accuse mosse a Noemi. Il racconto termina così: “So che tornerà. Non può essere stata lei. Lei cerca il perdono. Lei ha pietà”.
Paolo Zaghini