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Quella bella favola dell’America scoperta da Sigismondo

Ho letto con curiosità una nota su Sigismondo Pandolfo Malatesta scopritore dell’America. Che dire? Nei miei cinquant’anni di ricerche archivistiche, non ho trovato un solo documento che potesse seriamente avvalorare questa tesi, la quale francamente mi giunge nuova, oltre che strana. Ma, fedele ai miei principi, sarei pronto a ricredermi se qualcuno fosse in grado di produrre prove documentali inossidabili al riguardo.

Nel frattempo, mentre del caso si continuerà a discutere e si polemizzerà, magari puntando ad una bassa speculazione politica, vorrei sottolineare che – a mio giudizio – la sostanza del problema sta nel chiarire onestamente se si vuole parlare di mito o di storia, di leggenda o di realtà.

Per i popoli del Mediterraneo, fin dall’antichità, è stato sempre vivace l’interrogativo su cosa ci fosse nel grande oceano posto al di là delle Colonne d’Ercole (cioè dello stretto di Gibilterra).

Platone nei suoi Dialoghi (Timeo e Crizia, anno 360 avanti Cristo) sulla scorta di fonti egizie descrive Atlantide, una grande isola o un vero e proprio continente, fornendone le dimensioni ed il regime politico monarchico. Questa terra oltreoceano sarebbe stata sommersa in occasione di terribili terremoti e diluvi, in un tempo collocabile circa 9.000 anni prima di allora.
Ma le notizie di Platone sono state smentite dallo stesso Aristotele, sostenendo che l’autore si era servito di Atlantide in maniera figurata, per poter avanzare considerazioni politiche contrapposte alla repubblicana Atene.

Dopo di loro sono state numerose le ipotesi circa l’esistenza e l’ubicazione di Atlantide. Molte di esse hanno inteso collocarla all’interno del Mediterraneo; ma queste ovviamente non ci interessano perché nulla possono avere a che fare con la scoperta dell’America.

Passando all’età medievale, vanno prese in considerazione le migrazioni dei Vichinghi, grandi navigatori scandinavi che, spingendosi ad occidente, hanno via via raggiunto le terre dell’Atlantico settentrionale. Dapprima l’Islanda; poi nel X secolo la Groenlandia. Subito dopo il Mille numerose loro spedizioni sono giunte fino a Terranova, nell’odierno Canadà. Ma si è sempre trattato di incursioni effettuate da poche imbarcazioni e pochi uomini, dando vita ad insediamenti provvisori e di scarsa importanza.

In questo loro avanzare per balzi successivi, attraversando tratti di mare non lunghissimi (come invece è necessario fare alle latitudini inferiori dell’oceano Atlantico), i Vichinghi non hanno avuto la consapevolezza di effettuare scoperte geografiche eclatanti; tant’è vero che le notizie dei loro viaggi sono sempre rimaste senza particolare risonanza. Tuttavia si trattava di fatti concreti, come i ritrovamenti archeologici avvenuti dopo il 1960 hanno inoppugnabilmente dimostrato.

È a partire da Colombo, sul finire del Quattrocento, che le spedizioni effettuate al di là dell’Atlantico, salpando dall’Europa mediterranea, avevano uno scopo dichiarato di “scoperta”; quantunque gli obiettivi fossero ancora impropri, dal momento che Colombo, confidando sulla sfericità della terra, pensava di raggiungere le Indie. Solo qualche anno più tardi Amerigo Vespucci avrebbe maturato la consapevolezza che si trattava di un nuovo mondo, scippando così al Genovese il diritto di battezzare l’America.

E Sigismondo Pandolfo Malatesta? E il poema Hesperis di Basinio Parmense che narra il naufragio nell’isola Fortunata? Cosa c’entrano con la scoperta dell’America?

Il naufragio di Sigismondo

Il naufragio di Sigismondo

Qui è necessaria una breve premessa. Le Esperidi (che danno il titolo all’opera di Basinio) erano ninfe della mitologia greca, di incerta paternità: secondo taluni figlie di Teti e Oceano, o di Zeus e Temi, o di Atlante ed Esperide. Erano in numero imprecisato, fino ad 11, chiamate Egle, Aretusa, Esperia ecc. Vivevano nell’estremo occidente del mondo, oltre i confini della terra abitata e custodivano un bellissimo giardino ricco di mele d’oro. A detta di alcuni abitavano le isole Fortunate, nell’Oceano Atlantico.

Ora, Basinio Parmense ha composto il suo poema Hesperis in onore di Sigismondo, riecheggiando i capolavori di Omero: come nell’Iliade si canta la guerra di Troia, e nell’Odissea le peregrinazioni di Ulisse, con tanto di naufragio fra Scilla e Cariddi, così nell’Hesperis si magnifica il valore di Sigismondo nella guerra in Toscana (1448-1453) e il suo ritorno avventuroso in patria dopo un naufragio alle isole Fortunate, dove trova la ninfa Psicheia (in veste di Isotta) che lo accompagna nel regno dei morti, perché lì si collocano le isole “fortunate” fin dalla notte dei tempi.

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Sigismondo incontra la ninfa Psicheia sull’Isola Fortunata

Siamo nel campo dell’allegoria, della mitologia, della simulazione assoluta, utilizzata per omaggiare il Signore riminese, descrivendo un itinerario marittimo di pura invenzione e da lui mai effettuato.

Come da ciò si possa affermare che Sigismondo ha scoperto l’America, lo lascio al buon senso del lettore.

E quelle piante di araucaria, diffuse solo nelle Americhe? Se si osservano le figure del miniatore Giovanni di Bartolo della Bettina, che ha illustrato l’Hesperis, le troviamo ripiene di alberi dalle più svariate forme e chiome, con le quali l’artista ha dato libero sfogo alla sua fantasia.

E la carta geografica della Florida, leggibile nelle scrostature dell’affresco di Piero della Francesca? Mi auguro che questa affermazione stimoli molti Riminesi ad andarsi a rivedere nel Tempio Malatestiano quel capolavoro, troppo spesso ignorato o snobbato.

Ad ogni modo, per lo spirito di concretezza che cerco sempre di mettere nelle mie ricerche, vorrei porre qualche interrogativo semplice semplice.

Innanzitutto, sappiamo quanto Cristoforo Colombo abbia penato, fra Portogallo e Spagna, per poter mettere assieme le risorse necessarie alla sua spedizione. Sigismondo ha ottenuto tutto il necessario per il suo viaggio come per incanto? Il papa gli ha concesso tutto quanto richiesto? Come mai nell’Archivio Vaticano non c’è traccia delle spese relative? Come mai non v’è traccia di nulla nelle memorie, cronache e fonti malatestiane?

Cristoforo Colombo ha impiegato quasi due mesi e mezzo nella sua prima traversata atlantica (3 agosto 1492 – 12 ottobre 1492); quindi si è trattenuto qualche tempo nel nuovo mondo per le necessarie esplorazioni; infine è rientrato il 6 marzo 1493. Circa sette mesi fuori dall’Europa; ebbene, quando mai, nella vita di Sigismondo figura un tale vuoto, un tale periodo di totale assenza da Rimini e dall’Italia? Solo dopo il 1464, nella sfortunata spedizione di Morea; ma in quelle circostanze aveva ben altre gatte da pelare, piuttosto che pensare alle Americhe!

Altro interrogativo: dopo la scoperta il suo sarebbe stato inevitabilmente un ritorno glorioso, carico di ori ed onori, a Rimini come a Roma. Invece quelli successivi al 1453 sono per lui anni amari di situazioni difficili: avversato dal papa; escluso dalla Pace di Lodi e politicamente emarginato; costretto ad accettare condotte militari secondarie e svantaggiose; con il suo staterello invaso a più riprese.

In conclusione, mi sento di ribadire che non si può fondare la storicità di determinati avvenimenti usando argomenti mitologici. La storia abbisogna di elementi concreti e dimostrabili. Se viceversa si vuole fare del folclore, allestendo qualche spettacolo, magari intelligente e ben costruito, perché no? Purché siano ben chiari i confini tra la verità storica e la fantasia.

Oreste Delucca

(nell’immagine di apertura, Sigismondo approda all’Isola Fortunata (da un codice dell’Hesperis presso la Biblioteca dell’Arsenale di Parigi)

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