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Home > Cultura e Spettacoli > Quando il Marecchia vontava

Chissà se a qualche altro riminese è capitata la disavventura occorsami tanti anni fa. Andò così: studente a Bologna, ospite a cena di amici nessuno dei quali compaesano,  avevo intravisto che in cucina la pentola sul fornello cominciava ad agitarsi. Ebbi un bel lanciare l’allarme “Vonta! Vonta!”: invece di correre a togliere il coperchio, tutti restarono a guardarmi come se parlassi arabo. E la pentola, disastrosamente, vontò.

In quella circostanza, alla bella età di vent’anni, appresi così che “vontare” nella lingua italiana non esiste; appartiene solo allo schietto dialetto nostrano.

Fatto sta che dalle nostre parti capita ben di rado sentir dire che la pentola trabocca o che il fiume straripa, tracima o addirittura esonda. Eppure, a quanto sembra, pentole e fiumi vontano solo a Rimini e dintorni; nel resto della Romagna dicono trabuchè; in Emilia, svaglièr. E niente di simile si riscontra in tutto il nord Italia.

Invece, i parenti del nostro vuntè vanno cercati risalendo proprio quel Marecchia che tante volte in passato ha dato disastrosa sostanza al vocabolo.

Valicato l’Appennino e giunti ad Anghiari, ecco che il popolo ha di che allarmarsi quando  “il Tevere gonta”. Così a Città di Castello, Magione, Pietralunga. Restando sul nostro versante, a Urbino il verbo assume la forma guntè e in Abruzzo arevundà (in provincia di Chieti “lu latte arivonde”). Mentre vontare pari pari al nostro è a Pieve S. Stefano, sempre sul Tevere.

Giovanni Moretti (Umbria, Pacini Editore, 1987) ritiene vontare “un’isoglossa umbro-marchio-abruzzese” e lo fa derivare da “vomitare”, in latino vomere.

Umbria, Marche, Abruzzo, alto Lazio, un pezzettino di Romagna. Fosse così, la carta geografica restituisce in modo lampante il territorio di un antico popolo italico: gli Osco-Umbri, che con le loro tribù – Piceni, Sanniti, Frentani, Marsi, Equi, Volsci, Peligni, Sabini, Sabelli, Sapinei – abitavano proprio queste terre. E dalle nostre parti avrebbero così lasciato un loro ricordo non solo nel nome del fiume Savio (Sapis), ma anche in questa parola. Che in tal modo sarebbe addirittura precedente all’arrivo dei Romani.

Per altri si tratta invece l’origine va cercata proprio nel latino, in una contrazione di re-voltare.

Ma qualcuno si spinge più lontano, intravedendo assonanze con onda, ancestrale parola in cui permane la radice sanscrita  ud che è in uda-am, “acqua” e udan, “umido”, “ondata”.

Altri ancora scorgono parentele con “gotto”, grosso bicchiere (dal latino guttus, a sua volta, forse, dal greco kothon) tramite il verbo “aggottare”, che in gergo marinaresco è il “buttare acqua fuori dalla barca” con un recipiente che si dice “gottazza”. Il guttus (da gutta, “goccia, stilla”) era presso i Latini, spiega il Pianigiani, “un oriolo usato nei sacrifizi, per versare a gocce il vino nella patera e fare libazioni, ed anche in generale per contenere l’olio (altri dice per raccogliere il vino gocciolante dalla botte) con un collo strettissimo e con bocca piccola, dalla quale il liquido usciva fuori in piccola quantità, goccia a goccia (lat. Guttatim)”.

Non manca chi scorge affinità con “vuoto”, che viene dal latino volgare vo(c)itus e a sua volta ha fatto vontare.. pardòn, versare oceani di inchiostro ai glottologi.

Infine, qualcuno si lascia addirittura conquistare dall’assonanza con Vanth, divinità etrusca degli inferi che fra l’altro assiste alle agonie, cioè il momento in cui l’anima “vonta” dal corpo, e guida gli spiriti dei trapassati nell’aldilà.

Qualunque ne sia l’origine, proprio l’Umbria parrebbe l’epicentro del vontare. O almeno, qui si trovano le sue più nobili ascendenze. Mentre nella sua Todi si dice tutt’ora gontare, fu Fra Jacopone de’ Benedetti (1236 ca. – 1306) ad usare nelle sue Laudi questi versi: “..la piaga girà rompendo, farallate arvontare…”; “..questo venen revonta, kell’è officio sio..”.

Stefano Cicchetti

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