Nel corso della giornata di giovedì 12 settembre il Cantiere Poetico per Santarcangelo avrà un ospite d’eccezione: il grande regista Pupi Avati. Alle 19.30 al Supercinema ci sarà la proiezione del film da lui diretto nel 1978 “Le strelle nel fosso” con Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Carlo Delle Piane (attore scomparso di recente), Roberta Paladini e Giulio Pizzirani e, a seguire, si terrà l’incontro con Pupi Avati dal titolo “La poesia del cinema” che vedrà la partecipazione di Gianfranco Miro Gori.
Avati, cosa le viene in mente pensando al titolo dell’incontro? «Di solito in questi momenti parlo di me, l’argomento su cui sono preparato e di cui so tutto – commenta sorridendo il regista –. Racconto di quello che credo di sapere, di ciò che vorrei nella mia vita, dei miei sogni, delle mie aspettative. Riguardo alla poesia, non so se in certi barlumi delle mie pellicole sia accaduta. E per poesia intendo la trasmissione al pubblico della mia stessa emozione provata nel creare una scena, perché penso sia essenzialmente questo il senso poetico. Si raggiunge in qualche modo tale risultato quando diversi soggetti si identificano e scoprono alcuni loro aspetti attraverso il racconto di me stesso e dei miei film. Qualcosa che prima è ignoto sia a me che a loro ma poi prende forma, questo è poetico».
Che effetto le fa trovarsi a Santarcangelo a parlarne? «Per la mia vita questo è un luogo caro e sacro perché è dove morirono mio padre e mia nonna in un incidente. Quando sento il nome di Santarcangelo rivivo il momento in cui il 10 agosto 1950 nel cuore della notte vengo svegliato dalle urla di dolore di mia madre cui era arrivata la notizia. Davanti agli occhi ho l’immagine del camion che li ha travolti proprio nello stesso punto in cui Giovanni Pascoli perse a sua volta il padre in un altro fatidico 10 agosto. La cosa inspiegabile è la premonizione di mia madre che sin da bambina si è sempre commossa nel leggere le sue poesie: forse sentiva che in qualche modo i loro destini erano collegati».
Ha altri ricordi legati a questa terra? «Sì, a queste zone mi lega l’amicizia con Tonino Guerra al quale dobbiamo tutti tantissimo, così come alla moglie e al figlio musicista, persone straordinarie. A Pennabilli c’è inoltre un altro grande artista, un mio amico pittore, Antonio Saliola».
Di recente è anche venuto a Riccione a presentare il suo ultimo film “Il Signor Diavolo”. Com’è andata? «Molto bene, perché Riccione è un altro posto in cui conservo i migliori ricordi della mia giovinezza. Lì andavano in vacanza d’estate i giovani della “Bologna-bene” mentre d’inverno la meta era Cortina. Non si sa come mai ma erano tutti belli e credo fosse legato alle loro abitudini alimentari, migliori rispetto alla media! A quei tempi l’aspetto sentimentale, le ragazze, era quello predominante e se penso a Riccione immagino i locali da ballo e rivedo tutto dietro questo filtro».
Citando uno dei suoi grandi film, “Ma quando arrivano le ragazze?” «C’è ancora un punto interrogativo a riguardo!» Perché la scelta di tornare al genere horror? «Perché quando avanzi con l’età hai la certezza che si stia poco a poco tornando. Nella cultura contadina questo passaggio si è sempre indicato come “scollinamento”. In questa fase si guarda più al ricordo che al futuro, si ha nostalgia della propria giovinezza e quindi sono tornato alle mie origini cinematografiche e anche alla paura che si respirava in certi ambienti cattolici dell’epoca in cui i sacerdoti erano intenti a spaventarci con graduatorie di peccati e pene dell’inferno. Al momento, dato il riscontro di pubblico, si sta rivelando una scelta felice».
Irene Gulminelli