Ai ai ai. L’amico Enrico si è arrabbiato e quando si arrabbia sono guai. Mena fendenti a destra e manca. Nella foga irosa political-culinaria però gli sono scappate un paio di perle: primo che i comunisti sanno mangiare e sanno far da mangiare come hanno dimostrato in settanta anni di Feste de L’Unità; secondo la tagliatella è plurale e non può essere che così. Ho sostenuto con Lui che se le migliori tagliatelle, per me, erano quelle della mia mamma (consistenti, ruvide e con un ragù strepitoso) con le quali per decenni ha raccolto il consenso e l’apprezzamento dei nostri bagnanti (tugnini compresi) alla Pensione Maurizia in Viale Cormons, non per questo mi permetto di disprezzare quelle sottili e lisce della Delinda a Spadarolo, quelle corpose cariche di un ragù forte da Renzi a Canonica, o le tanti varianti proposte da ottime trattorie e ristoranti romagnoli.
Ma… e qui Enrico ha aggiunto un di più: il contesto in cui si va a mangiare le tagliatelle. Giancarlo Zoffoli nel libro che ha dedicato a Montebello (“Montebello. “à stìmi bèn insèn!” edito da Amazon) ha scritto sul “contesto”. “I Zoffoli nel 1958 aprirono la trattoria al posto dell’osteria che già gestivano. Nello stesso periodo compirono la medesima scelta i Pacini che trasformarono la loro piccola bottega in ristorante. I due ristoranti erano in competizione con una loro identità che li rendeva riconoscibili, non si andava a Montebello per mangiare, ma si andava a mangiare da Zoffoli oppure da Pacini. I due ristoranti avevano una clientela diversa, per i sapori, i rapporti ma c’era anche dell’altro. Negli anni ’60 del secolo scorso la società era divisa in due, i bianchi da una parte e i rossi dall’altra. A Montebello prevalevano i rossi e Zoffoli era uno di quelli. Pacini era bianco e legato alla Chiesa, in minoranza a Montebello”.
Le tagliatelle erano buone in entrambi i locali. Lo dico perché ho alternato per anni la visita all’uno e all’altro. Dei due, oggi purtroppo ne è rimasto uno solo: Pacini. Enrico sarà contento perché così ha la dimostrazione che i culi gialli sono i più duri. Non me ne voglia Pacini: una delle prossime domeniche andrò a trovarlo e a degustare ancora una volta i suoi ottimi piatti (tagliatelle comprese).
Insomma ho l’impressione che con oggi siamo arrivati al termine della nostra querelle culinaria sulle tagliatelle. La conclusione è: ognuno vada a mangiarle dove più gli aggrada.
Chiuderei ancora una volta con alcune strofe dell’ode alla tagliatella di Ivano Muratori:
“T ci una prèlibatèza, / magnèt l’è ‘na bèlèza, / e per e’ tènt che t pièš, / t ciap dièš, òltre un bèš”
(Sei una vera prelibatezza, / mangiarti è una bellezza, / per il tanto che piaci, / prendi dieci, oltre un bacio).
Paolo Zaghini
Mettiamo le carte in tavola una volta per tutte. Non posso accettare le continue e pervicaci punzecchiature del “compagno”, non mio, Paolo Zaghini. Non ho mai avuto paura di manifestare il mio pensiero, e tanto meno le mie convinzioni. Sono l’ultimo dei culi gialli, Cattolico, Apostolico, Romano.
Domenica, dopo la Messa ai Servi, sarò dalla Delinda con i miei amici napoletani al tavolo di famiglia che Marina vorrà riservarci. Perché sia chiaro da subito, la tagliatella è casa.
Non mi piacciono le marchette e soprattutto le classifiche farlocche. Il gusto è personale, soggettivo, è normale che ci siano preferenze, è umano che ci siano simpatie.
Io sono un delindiano. Un delindiano convinto, ma il mondo non finisce a Spadarolo. Quello che voglio dire è che non c’è la tagliatella migliore in assoluto. Sono tante le componenti per cui si sceglie un locale. Sono per la cucina nazional-popolare di derivazione gramsciana (ogni tanto ci azzeccano anche i Comunisti).
Ho bisogno di un sorriso quando entro in locanda, non mi piacciono i menù scritti, la lista cosmopolita dei vini, i bambini che scorazzano tra i tavoli, i telefonini invadenti, il vociar alto dei commensali, le risate sguaiate di donne pacchiane. Mi fermo qui, perché come diceva il mio Maestro Giorgio Stupazzoni da Bulogna: “predca curta e taiadela longa”.
Rurali sempre.
Enrico Santini