«A Parigi Notre-Dame brucia, ma c’è del sublime perfino in questa sofferenza». Paolo Fabbri, 80 anni oggi, si è trasferito nella capitale francese nel 1965 e da allora è stata la sua seconda, e a lungo prima patria, fino a giungere a dirigervi l’Istituto Italiano di Cultura. Il semiologo riminese non dismette i ferri del suo mestiere e prova ad andare oltre all’inevitabile commozione del momento.
«Quelle immagini – commenta – sono di una potenza sconvolgente. E raggiungono la categoria del “sublime”, o almeno così lo intendeva Kant riferendosi al romanticismo. Certo è un paradosso, ma oggettivamente l’incendio della cattedrale di Parigi mette in scena un grande spettacolo globale. Negli ultimi anni, solo le Torri gemelle credo abbiano avuto un impatto maggiore. E del resto la distruzione fa orrore, ma l’orrore attrae. E qui c’è anche l’elemento del fuoco, che noi romagnoli conosciamo bene».
Cioè? «Le fogheracce, no? Poche culture sono attaccate a questo elemento come la nostra. Ma in generale, l’uomo cerca in tutti i modi di controllare il fuoco, ma quando il controllo gli sfugge cononosce esattamente la misura della sua impotenza. Ed è quello che tutti abbiamo provato nel vedere il rogo della cattedrale di Parigi».
Ci sono differenze fra Francia e Italia nel vivere catastrofi di questa portata? «Senza dubbio. I francesi si fidano del loro stato, danno per scontata la sua efficienza. Scoprire a un tratto che non è così rappresenta per loro un grosso trauma. Per noi è diverso; ci indigniamo, certo, ma non siamo poi così sorpresi quando le cose non funzionano».
E la caccia ai responsabili? Anche loro cercheranno dei capri espiatori, come spesso succede da noi? «Può darsi, ma anche qui con delle differenze. Da noi di solito alla fine non paga nessuno, nemmeno il capro espiatorio. In Francia quando nel 1944 De Gaulle riprese Parigi ai tedeschi, fece fucilare 10 mila persone per collaborazionismo. Da loro il capro deve espiare per davvero».
Siamo diversi anche nella ricostruzione dopo il disastro? «Secondo me sì. Al di là dei cinque anni o più che occorreranno, sono sicuro che i francesi baderanno innanzi tutto a cancellare ogni traccia di quanto è accaduto. Noi invece lasceremmo una traccia della distruzione che a un certo punto è intervenuta nella storia di un monumento».
La sciagura servirà da collante per la nazione, come probabilmente si augura il presidente Macron? «In un certo senso sta già funzionando in tal senso, lo si è visto subito nell’ondata di donazioni. Ma mi pare che in qualche misura ciò stia avvenendo anche a livello europeo. Perché Notre-Dame è un formidabile simbolo per tutta l’Europa, non dimentichiamolo. Chissà, forse anche questo episodio sarà un mattone di una costruzione comune».
Cosa rappresenta l’incendio di Notre-Dame per il semiologo? «E’ una mia sensazione e non posseggo prove per confermarla, ma mi pare il segno di un grande cambiamento. Come se si chiudesse un’epoca e un’altra si aprisse. Ripeto, è solo un sentimento personale, ma è quello che ho provato».
Come sta festeggiando il suo compleanno? «Mi sono concesso Mantova e il Palazzo Te. Al primo rinascimento, che qui è l’Alberti con una chiesa che concluse a differenza del Tempio di Rimini, personalmente preferisco la fase finale, quella manieristica, più ironica e giocosa».
Auguri professore!
Stefano Cicchetti