Noi ciclisti – in senso non sportivo, ma semplicemente locomotivo, cioè adoperiamo la bicicletta per i nostri spostamenti quotidiani – abbiamo tante buone qualità, e ci piace tanto sentircele ripetere: siamo puliti, frugali, ecosostenibili, intelligenti, coraggiosi in quanto guidiamo uno dei mezzi più indifesi e rubabili, e siamo pure generosi, visto che fungiamo da mini-depuratori d’aria semoventi, con i nostri polmoni che filtrano tutte le zozzerie emesse dai tubi delle auto brutte e cattive.
Di difetti ne abbiamo solo un paio: il primo, e il più grosso, è la suscettibilità, cioè la tendenza ad arrabbiarci quando ci ricordano il nostro secondo piccolo difetto, l’indisciplina. Che si può declinarsi in due versioni: «militante», cioè derivata da un pensiero tipo «in cambio della mia eroica rinuncia all’auto, che avvelena e imbruttisce l’ambiente, la società deve come minimo riconoscermi il diritto di fare in bici ciò che è vietato agli automobilisti», oppure «primigenia», che non discende da pensiero alcuno: l’indisciplinato primigenio fa quello che è vietato comunque, sia che si sposti in bici o in macchina, a piedi o con i mezzi pubblici.
Come ciclista, confesso di appartenere alla categoria degli indisciplinati militanti, corrente vittimista-giustificazionista: in pratica, la bici dovrebbe avere lo stesso status della carrozzella da invalido. Quando imbocco una stradina del centro in senso vietato mi sfiora il sospetto che non dovrei farlo (l’indisciplinato primigenio manco ci pensa) ma poi mi dico che non si può chiedere di fare il giro dell’isolato a me, povera innocua ciclista che col suo trabiccolo praticamente bidimensionale non occupa spazio e non fa male a nessuno: i sensi unici li rispettino gli arroganti e mortiferi autoveicoli.
Se percorro in bici un tratto di marciapiede ho sempre ottime ragioni: la ciclabile è troppo stretta o è usata come parcheggio dalle auto, e mettere in pericolo i pedoni con il mio mezzo non è irresponsabilità (quella è tipica degli automobilisti), ma dura necessità dettata da colpe altrui. Anzi, se travolgo una signora che esce da un negozio mi aspetto da lei comprensione e solidarietà, oltre a un pizzico di rammarico per non aver fatto più attenzione nell’uscire. (Nota dell’autrice: non dico sul serio, è autoironia. Oggigiorno è sempre meglio precisare.)
Ma quello che manda davvero in bestia noi ciclisti indisciplinati militanti è il cartello «vietato appoggiare biciclette». Chi ce l’ha con il nostro virtuoso, geniale ed ecologico veicolo, che con la sua presenza nobilita qualunque contesto architettonico-paesaggistico? E’ una bici, mica una scritta permanente sul muro.
Di sicuro quell’«appoggiare» non significa solo accostare, va interpretato in senso figurato: vietato sostenere, favorire, apprezzare la bicicletta. Il cartello l’ha messo certamente un ciclofobo.
(Come sopra: non dico sul serio. Quello che va preso sul serio è il problema del parcheggio delle biciclette in città. E’ più facile riuscire a trovare un posto al nido per il proprio figlio che una rastrelliera per la propria bici. I pali sono sempre oberati e lungo le cancellate si incatenano le bici in doppia fila. Ma non me la sento di assicurare che se le rastrelliere si moltiplicassero sparirebbero gli assembramenti non autorizzati di ruote e manubri contro sbarre e ringhiere: anche nella nostra categoria, gli indisciplinati primigeni sono la maggioranza.)
Lia Celi www.liaceli.it