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Grazia Nardi:
“Armidiè. Storie di vita nella Rimini degli anni ’50 e ‘60” – Panozzo.

Anche io, come Grazia, sono nato nei primi anni ’50 a Rimini, ma in un altro quartiere, alle Celle per poi trasferirmi, a seguito della famiglia, a Marina Centro. Molte delle storie raccontate in questo libro posso farle mie, altre no. Più fortunato? Forse, ma non certo per merito mio: avere una grande madre azdora, con una famiglia allargata numerosa, nella Rimini di quegli anni ha sicuramente fatto la differenza per passare dalla campagna al cuore del nascente turismo di massa.

Scrive Grazia: “Il tentativo è stato quello di recuperare le sensazioni, le percezioni, i modi di pensare, il sentire comune di un periodo e di un certo ambiente, di famiglie che erano uscite dalla miseria ma erano ancora dentro la povertà, di quella che punta ad evitare le spese più che contare sulle entrate, che ti tiene attaccato ai bisogni essenziali, che mette il cibo al centro dei valori”.

Piero Meldini nella Presentazione del libro sottolinea, con la sua sensibilità storica e culturale, che “la mia generazione e quella di Grazia sono state probabilmente le ultime a vivere in due età differenti: quella premoderna e quella moderna; ad essere testimoni oculari della rapida dissoluzione di un complesso di usanze, credenze, rapporti, strumenti e tecniche vecchi di secoli; le ultime ad assistere, nel giro di pochi anni, alla fine di un mondo e alla nascita di un altro”.

E prosegue: “Di questo mondo perduto Armidiè è la rievocazione vivace e affettuosa, ma senza sentimentalismi e smancerie sul ‘buon tempo andato’, perché Grazia ha ben presenti, di quel tempo, le durezze e le ingiustizie, e sa che non c’è gran che da rimpiangere, oltre alla giovane età”.

Il libro è ricco di espressioni dialettali perché in quegli anni era ancora la lingua del popolo. Ma “a noi bambini, però, era vietato parlarlo” perché se no avremmo corso il rischio di andare male a scuola.

Grazia ci racconta, attraverso vari capitoli del libro, la vita sua, della famiglia e dei vicini in Via Cairoli, nel centro di Rimini: un mondo fatto di manovali, precari cronici, disoccupati fissi, in pratica il sottoproletariato urbano della nostra Città. La casa era una stanza nel Palazzo degli Agostiniani, con un arredo “minimalista” (un armadio a due ante, un letto matrimoniale, due lettini singoli, una tavola con quattro sedie, un mastello pluriuso, una stufa). “In genere ci mettevamo addosso quello che ci veniva regalato, usato da altri o ‘passato’ dai figli maggiori. Era così raro avere qualcosa di nuovo che, nel caso delle scarpe, si tenevano come reliquie”.

“Quel mondo popolare o meglio popolano, che uscito dalla guerra s’affacciava ad una normalità tutta da costruire, sapeva apprezzare la saggezza degli anziani, l’oratoria dei grandi della politica, il vissuto dei partigiani, guardava con curiosità i film americani che rimandavano l’immagine di un benessere diffuso ma era più vicino all’essenzialità del neorealismo italiano e non era pronto ad accettare dai propri simili modi e forme che apparivano grottesche nel nostro ambiente”.

Ed era inesistente un privato affettivo in quel mondo. “A noi bambini degli anni ’50, primi ’60, nessuno dava il bacio della buona notte. Di superfluo non c’era niente, neppure nei sentimenti”.

“La famiglia ruotava attorno ai bisogni primari, tra tutti il lavoro (…). Non esisteva il concetto di ‘vacanza’, la scuola, non a caso, era quella ‘dell’obbligo’. In pochi quelli che ricordavano i compleanni, personalmente ho scoperto solo negli ’60 che c’era l’usanza di festeggiare il 31 dicembre. Le ‘differenze’ sociali erano evidenti, nel modo di vestire, in quello di parlare”.

Amara la considerazione sulla differenza dei ruoli, che anche mia madre mi ha ripetuto con rabbia tante volte: “Si lavorava per mangiare, si mangiava per poter lavorare. Questo uno dei motivi per cui, a tavola, la parte più abbondante e sostanziosa, spettava all’uomo, al capofamiglia che lavorava ‘fuori’ mentre la moglie, per ultima, raschiava il tegame col pane”. E “la vita intima era un tabù assoluto”. Ed anche le donne che partecipavano “ai cortei del Primo Maggio o alla Festa della Donna, promossa dal PCI o dall’UDI, vivevano una netta divisione tra le idee politiche e la morale personale”.

In quegli anni gli elettrodomestici “saranno, prima ancora che strumenti di necessità, i primi veri e propri ‘status symbol’ del miracolo economico” italiano. Il più ambito tra gli elettrodomestici non fu il frigorifero o la lavatrice o la cucina con i fornelli a gas o la macchina da cucire, ma la televisione. “Nel 1954 gli abbonati alla TV non superavano i 20.000 per arrivare nel 1956 a 360.000 (…). La paga media di un operaio oscillava tra 20.000 e 40.000 lire al mese, il costo di un televisore di sottomarca era di 200.000 lire più l’abbonamento annuo di 12.500”. Nonostante ciò “diventerà l’acquisto più diffuso e rateizzato agli inizi degli anni ‘60”. E poi verrà il telefono: “dal 1954 al 1963 gli abbonati passarono da un milione e mezzo a circa quattro milioni”.

Grazia ci racconta tanti altri aspetti della vita in quegli anni: le feste di Natale e Pasqua, l’estate al mare, la gestione delle malattie, gli approcci amorosi, la festa dei Morti il 2 novembre, la festa della Befana.

“Ribadisco, a beneficio di chi ha avuto esperienze diverse, che i miei sono ricordi filtrati da una bambina nata nel 1951, rivisitati, oggi, nella loro commistione tra situazioni familiari, sensazioni infantili, impronte lasciate da un mondo antico, seppur modificato dalla guerra, presagi eccitanti di un futuro che avanzava in fretta, tanto che oggi è già passato remoto”.

Afferma Meldini: “’Io non ho scritto la storia’ dichiara Grazia. Mi permetto di dissentire. La microstoria del quotidiano gode ormai piena dignità storiografica, e può vantare anche una tradizione locale. Un nostro concittadino, Liliano Faenza, è stato addirittura l’inventore di un nuovo genere storiografico che mescolava storia pubblica e storie private, fatti documentati e memorie personali, e la cui fonte principale erano non di rado i suoi stessi ricordi”.

Paolo Zaghini

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