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Dalla finestra vedevo la Lupessa che scuoteva la testa:
“Natale! E’ Natale questo?” si chiedeva ad alta voce, mentre il vento caldo le riempiva i capelli di polvere. Tutte le latrine della città sembravano voler ribollire i loro miasmi, e peggio di tutte la fossa dei molini.

“Garbino di Natale!” volle ancora dire la Lupessa, nonostante il peso della legna le tagliasse il fiato, mentre apriva la porta con lo zoccolo.

Perfino con il cielo terso e una luna immensa da far spavento, si faceva fatica a scorgere l’osteria della Lupessa. Discosta dall’ultima casa della fila, proprio dove la contrada Codalunga moriva fra gli orti, la si poteva scambiare per un pollaio. Il pianterreno era praticamente una cantina, sprofondata per diverse spanne sotto il livello della via, tanti erano gli anni che una buonanima aveva messo insieme quattro muri, usando mattoni che venivano dai guasti di chissà quali altre case, e sassi tondi venuti su dal fiume. Sopra aveva un rialzo quasi tutto di legno, e un tetto di non si sapeva che cosa, se non che ogni rifiuto della città pareva avervi concorso. Dentro, poi, l’osteria era buia come non mai.

“E accendi quegli accidenti di lucerne!” mi urlò la Lupessa tirandomi uno zocchetto.
“Ma’, è il garbino che le spegne. E’ peggio del diavolo e fa la gente assassina, lo sanno tutti!” provai a rispondere schivando il colpo.

“Bravo Bartolino, svelto di gamba e svelto di lingua – rise paròn Garavella – Un bel giorno ti porto con me a Ragusa, vedrai che alla meno ti faranno avvocato”.

“Se ti ripescano da quelle parti nemmeno l’avvocato del sultano ti salva dal palo, caro il mio paròn. E tira ‘sti dadi, boia chi t’ha salato il muso! O aspetti la benedizione del vescovo?”.

Chi aveva parlato per ultimo era un frate, o almeno così diceva  di ancora essere Michelone della Pula, anche se non c’era più convento che gli desse da mangiare. Il canonico del Duomo aveva giurato di potargli le dita, se solo si provava ad avvicinarle a un’acquasantiera, almeno finché non avesse pagato i suoi debiti con la giustizia e con la religione.

A volte mi domandavo come mai a mia madre, che non era tenera con nessuno, bastassero l’uovo tocco o le due poveracce che Michelone le rimediava ogni tanto in cambio della minestra e del pagliericcio, che per lui c’erano sempre.

Però Michelone neanche se avesse pagato con l’anello del Papa poteva prendersi la Tignosa e la Mariuccia: “Quello lì, qui nella testa è marcio come un morto affogato” diceva la Lupessa, avvitando il dito nel suo cespuglio di capelli sempre scarmigliato. “A lui non gli do né figlia né garzona”.

Ma quella sera, come da parecchie a questa parte, Michelone non avrebbe avuto nemmeno la minestra. Né lui né nessuno, perché nell’osteria da mangiare era rimasta solo la polvere. C’era solo il vino del nostro pergolato, che sapeva metà di taso e metà di aceto, come dicevano tutti quanti. Un’invernata così magra non se la ricordava nessuno. E se perfino i signori facevano vigilia tutti i giorni, noi da un pezzo si mangiava vento e fumo.

“Avete perso ancora, fra’ Michelone” fece il paròn, tutto contento. “E avete perso molto. Volete fare subito onore al vostro debito? O possiamo scriverlo sul mare, insieme a tutti gli altri?”.

Il frate si erse di scatto, lungo e secco come una forca: “Mi dài dell’insolvente? Mi dici bugiardo? Il Signore mi perdoni perché ho tanto peccato, ma la verità l’ho sempre detta. Anche per questo i farisei mi hanno bandito dal tempio. Se dico che pagherò, vuol dire che pagherò perfino te. Te che hai venduto tua madre per un’oncia di cenere”.

“Adesso hai parlato troppo, maiale di uno scomunicato”, disse il Garavella senza smettere di ridacchiare.

Ma il paròn non aveva ancora cacciato il coltellaccio che già il frate gli puntava alla gola il suo corto bastone, che teneva acuminato come una picca.

Saladino saltò fuori dall’angolo dove era accucciato e ringhiò debolmente.

“Facciamo i bambini piccoli?” gridò la Lupessa, improvvisamente allegra. “Non avete rispetto di una casa onorata nemmeno la notte di Natale? E basta no? Se mi aiutate a rimediare un po’ di almadìra da mandare avanti il focolare, vi preparo una bella brocca di quello caldo”.

“Ma cosa te ne fai di tanta legna? Alla tua età per fare fuoco di solito bastano gli umori di femmina” sghignazzò il frate, tornando a inabissare l’arma nel saio lurido.

“Siete un animale proprio sciocco, reverendo padre, un cocàle con tutti i sacramenti” lo canzonò Garavella. “Il garbino porta la tempesta e questa brava donna lo sa bene. Forza, andiamo sulla spiaggia a vedere cosa ci regala il mare. E preghiamo che il vento non ci faccia volare un coppo sulla testa. Dài Bartolino, fai strada a due poveri vecchi”.

Uscimmo, subito travolti dalle folate. I cipressi delle suore di Santa Maria degli Angeli si inchinavano fino a terra sibilando come bisce, mentre dalla parte opposta, verso il mare, paglia, rami, pigne e polverone sbattevano in mulinelli nelle rientranze delle mura della città. Non c’era nemmeno bisogno di camminare, quasi si volava. E meno male, perché la fame si era mangiata ogni forza.

Arrivammo in un baleno alla vecchia posterla, dove la fossa usciva dalle mura. Perfino l’inferriata, divelta da molto tempo, minacciava di volare via del tutto e strideva come una bestia allo scanno. La fossa portava più puzza che acqua e fu facile anche per il paròn, vecchio e impedito com’era, oltrepassare l’arcata camminando dentro il greto.

Passati gli orti di fuori e poi, con gran stento di quei due, la catena delle dune, arrivammo alla riva. Correvo a braccia aperte, volteggiando come il gheppio. L’aria salmastra aizzava la fame che già mi scavava la pancia notte e giorno. Mi sembrava di averci dentro una topa che alla fine mi avrebbe squarciato. Il garbino spianava il mare, la sabbia volava sulle onde, la spuma sottile si argentava di luna.

“Guardate dove finisce il vostro caldo” disse Garavella, indicando al frate quella che sembrava una nera catena di monti sorta come dal nulla a chiudere l’orizzonte del mare. “Al posto nostro, che nessuno ci vuole, alla funzione della mezzanotte ci andranno quelle nuvole laggiù”.

“La funzione di mezzanotte! La fiera della vanità! Li saluterò tutti all’inferno gli ipocriti di questa città perduta!” abbaiava Michelone.

Mentre gli uomini stavano così a filosofare distesi sull’ultima duna, io in quattro e quattr’otto avevo già messo insieme un gran mucchio di ramaglia e anche un paio di tronchi, belli asciutti e pronti da accendere.

All’improvviso il vento caldo tacque. Passò solo un attimo e dal mare venne come l’eco di una folla immensa che acclamava un sovrano, o attaccava battaglia, prima lontano, poi sempre più vicino. Dalla direzione opposta al garbino giunse una sferza gelida.

“Ci siamo” sentenziò compiaciuto il paròn “Eccola che arriva, la buriana. Ci tocca correre, o presto resteremo al buio e faremo anche un bel bagno”.

E infatti quelle montagne rotolavano nel cielo spegnendo le stelle una dopo l’altra. La tavola del mare si rompeva in onde disordinate.

I due acchiapparono un po’ di rami sottobraccio; io i due tronchi, per far vedere quanto ero forte. E provammo a correre. Ma più che camminare non potevamo, fiacchi com’eravamo. Però anche questa volta il vento ci aiutava, avendo girato proprio al contrario. Ma le folate aumentavano ed era già bufera, la sabbia ci accecava, per passare una duna sembrava di dover scalare San Leo.
Mi voltai e vidi il mare. Si era già mangiato la riva. Le onde arrivavano sempre più alte e rabbiose, gli spruzzi volavano fino a noi.

“Correte! correte!” urlava il paròn, che già aveva mollato il suo piccolo fardello. Feci lo stesso, poi non vidi più niente. Anche la luna era stata inghiottita, nel cielo era rimasta solo una stretta striscia di chiarore laggiù, verso i monti. Annaspavo come un matto verso là, dove doveva pur esserci la città. Mi sembrava di essere al giogo di un biroccio. Alla fine non so ancora come ci ritrovammo tutti e tre alla posterla, sfiniti. Ma la fossa non era più tanto secca, il mare non riceveva più e si era ben gonfiata, perché già pioveva forte.

Dovemmo entrare nell’acqua fino alle ginocchia. Il frate passò, e anch’io. Riprendemmo il fiato al riparo della mura. Ma il paròn non riusciva nemmeno a chinarsi, si era ancorato al fornice dell’arcata e sembrava paralizzato, con il collo torto all’indietro.

“Là! Là!” ansimava senza voce.

Guardai anch’io. Le onde avevano scavalcato le dune e ruzzolavano ormai sugli orti. E continuavano a crescere come mai ne avevo viste. Già una, enorme, stava correndo alle mura. Il paròn stava per prendere il largo per l’ultima volta. Gli afferrai un polso. Il frate mi guardò feroce e fece per andarsene. Poi invece abbrancò l’altro braccio di Garavella e bene o male lo tirammo dentro. Addossati alla mura, ci segnammo tutti e tre; ma gli altri due aggiunsero una bestemmia ciascuno. La posterla sbruffò l’ondata furibonda. Il mare era arrivato alla città.

Gli scoppiettii del fuoco spaventavano Saladino. Io e la Tignosa lo accarezzavamo, lui ci guardava riconoscente, ma poi tornava a uggiolare. La mia povera Mariuccia invece rideva ad ogni botto, forse credeva di essere a una festa. Né il fuoco stento, né il vino caldo della Lupessa bastavano più per scaldarsi. Si sentiva la pioggia scrosciare come se ne buttassero a mastelle da una torre. Il solaio già sgocciolava.

Non riuscivo a pensare ad altro che al mangiare. Ma come se fosse una cosa possibile solo in un altro mondo, in una fola della veglia. Non solo in casa e nell’orto non c’era niente, ma con quella stagione così sarebbe stato per chissà quanto altro tempo. Niente in tutte le contrade della Patarina, in tutta la città, forse in tutto il mondo. Sono sicuro che ciascuno, Saladino compreso, aveva questo unico medesimo pensiero.

Ci stringevano muti davanti al focolare, meno la Lupessa che continuava a sfaccendare chissà cosa. Garavella non smetteva il suo sorriso compiaciuto, neanche adesso che era mezzo assopito. Invece il frate era inquieto e continuava a sbirciarci uno ad uno, ma specialmente la Mariuccia e la Lupessa. Provavo, senza riuscirci, a non battere i denti. Il vento sibilava, orribile.

Arrivò una folata più forte che parve spazzare via l’osteria tutta intera. Gli scuri dell’unica finestra si spalancarono e sbatterono con tale forza che uno si schiantò in mille pezzi. L’altro se ne volò proprio via. Le lucerne si spensero. Di botto, la porta si spalancò.

Qualcuno stava sull’uscio, grondante di pioggia. Era ricoperto fin sopra la testa da un cappotto di Salonicco, o forse una coperta. Non si scorgeva che una grossa sagoma, immobile.

“E’ aperta questa locanda?” chiese una voce placida e profonda. Proprio questa sua calma mi fece trasalire, anche se sul momento non capii il perché. Michelone si era come pietrificato, Garavella ebbe un sussulto e restò immobile anche lui, le ragazze scrutavano il buio a bocca aperta. Saladino ringhiò.

“Ma certo, venite buon uomo” rispose la Lupessa. “Non vorrete restare là fuori. Qui siamo tutti cristiani”. C’era del timore in lei: lo avvertii chiaramente, in mia madre non lo avevo mai sentito prima.

A passi lenti, l’essere entrò e si accomodò pacificamente sulla panca.
Non pareva aver voglia di scaldarsi accanto a noi. E non si liberava di quell’involto fradicio che bagnava l’impiantito.

“Be’, sarà meglio tappare quella finestra con qualche cosa” disse, con una voce che ora sembrava diversa, più acuta, ma sempre calmissima.

Solo allora ci accorgemmo che la pioggia stava allagando la stanza. Fu il frate, stranamente, a darsi da fare per puntellare alla meglio l’imposta. Tuonava e saettava, il fischio del vento era ormai un urlo.

“Mi hanno detto che qui si mangia bene” riprese la voce, di nuovo diversa e sempre serena “E ci si corica meglio. Sarà la verità?”

“Ti hanno detto bene” disse la Lupessa, sempre con quello strano tremito nella voce che non era solo di freddo. “Ma in una notte come questa per il mangiare ti dovrai accontentare. Per il coricarsi, in città non c’è niente di meglio delle mie figliole, se solo vorrai essere gentiluomo”.

La Tignosa accennò un inchino e lanciò il suo solito sguardo riservato ai nuovi venuti, un misto di disprezzo e di lascivia. La mia povera sorellina Mariuccia, invece, non sapeva neanche che si stava parlando di lei.

“Sì, sarò un gentiluomo. Proprio per questo mi sono fermato qui”.

“E avete fatto bene! Ma da dove venite con questo tempo tremendo? Andavate alla funzione?” chiese la Lupessa.

“Vengo dal mare. Con la mia nave, naturalmente”.

Michelone si alzò, lungo com’era, e barcollò qualche passo verso la figura.
“Ma lo sapete dove vi trovate?” sbottò, con gli occhi fuori dalla testa. “Qui siamo alla Pattarina! Questa è la contrada Codalunga! Qui di certa gente che si credeva tanto furba non se n’è saputo più niente! Ma quale nave? A chi la volete raccontare che venite per mare in una notte come questa?”. Il frate voleva continuare, ma quasi soffocò in un accesso di tosse.

La figura tacque, immobile.
Poi, con voce ora quasi femminile, sospirò: “La mia nave è là fuori. Guardate voi stessi, se non ci credete”

Corremmo alla finestra per sbirciare fra le fessure lasciate dal suo precario riparo. Ci sforzammo invano di scrutare il buio. Si sentivano gli orrendi rimbombi delle onde che battevano le mura, e di lontano un brontolio continuo di tuoni. Ed ecco, un lampo si specchiò sul lago che appariva al posto della fossa e illuminò un cavallone immane che si infrangeva sui merli delle mura, quasi scavalcandoli. Per il resto si vedeva solo una pioggia come quella di Noè.

Eppure il paròn qualcosa doveva aver visto, poiché pareva invaso dallo stesso terrore di quando si era ritrovato impiccato alla posterla.

Si mise a balbettare: “La nave Lansierna, è la nave Lansierna…ci porterà via…tutti via…”

Michelone lo guardò con odio.

“Ma quale Lansierna! Vecchio invornìto! Testa di mazzola!” inveiva e tossiva il frate. “Pescatore di becconi! Voi di mare siete solo capaci a credere ai vascelli dei fantasmi! Alla valle dei Settemorti! A Cissa! A Conca! A Metamauca! Alle città sprofondate, ai campanili che suonano sott’acqua! Non avete nessuna fede! Non sapete pregare, ma solo fare scongiuri! Siete lordi di peccato e non sapete nemmeno chiedere perdono!”.

Paròn Garavella non lo ascoltava. Era in ginocchio e biascicava: ”Tu, tu dovresti chiedere perdono…”. E abbrancò le ginocchia del frate.

Michelone se ne liberò. Ma subito crollò a terra bocconi come se lo avessero pugnalato. E scoppiò a piangere.

“Davvero non lo volevo” mugolava, rivolto alla figura, sempre immobile. “Abbiate pietà! Non mi pento per quel che ho rubato e nemmeno perché ho ucciso, l’ho fatto solo per bisogno e nessuna giustizia dei cieli mi può condannare…”.

Alzò per un attimo il viso sconvolto, implorante, per poi di nuovo prostrarsi a terra, ma rivolto alla Lupessa.

“Dio mi è testimone: quella povera bambina senza senno, no! Io non la volevo! E quell’altra, quella diavola fu poi lei che, che…” esalò il frate. “…ma lo spirito maligno che alberga in me è troppo forte. Troppo!”

Orrore e furore lampeggiarono negli occhi della Lupessa. Ma subito anche lei si gettò a terra, anche lei piangendo, le mani giunte.

“Perdòno, perdòno per tutti noi! Siamo solo dei poveracci!” singhiozzava “E noi misere donne, cosa possiamo fare per avere una crosta di biada in questo mondo di maiali schifosi? E non meritiamo nemmeno un po’ di bene? Ed ecco che ci riduciamo ad amare perfino delle bestie come questo disgraziato che pure un tempo ebbe i sacramenti, dice lui! In cambio di cosa? Maledetto, maledetto…”

“State in pace, brava gente” disse la voce “Non sono un angelo vendicatore, non vengo a giudicare. A me non interessano colpevoli o innocenti. Non mi interessano i vostri peccati, non mi importa affatto che questo avanzo di pirata insidi finanche quel ragazzetto. E che il ragazzo sia già imputridito anche lui. E che quelle fanciulle, sorelle o non sorelle, abbiano già il marchio di codesta megera. La quale ne è gelosa presso il suo ruffiano, ma le vende al primo venuto”.

La figura si mosse lentamente verso il tavolo.

“Ve l’ho detto, sarò un gentiluomo, se questa è la parola giusta. Ho deciso di onorare questa notte per voi così importante. E proprio con voi, che siete gli ultimi fra gli ultimi, i rifiuti di questa trascurabile città, vorrei fare un gioco. Certamente voi avete sempre desiderato di andar via, ovunque fosse. E forse persino nel luogo da dove vengo io. O forse no. Facciamo così: chi riuscirà a battermi, potrà scegliere se restare o se partire con me. Che ne dite?”

Ci guardammo l’un l’altro.
La Lupessa pareva tornata di colpo la solita. Si rialzò e si stropicciò le mani nel grembiule.
E belò: “Ma certo che vogliamo giocare! E che ne dite se per riscaldarvi vi preparo un infuso come non ne avete mai provati? Fa resuscitare i morti!” E rise. Prima piano, poi sempre più sguaiatamente.

Quando mi svegliai nel solaio, un chiarore filtrava dalle fessure del tetto, insieme a qualche fiocco di neve. Il freddo tagliava, ma sapeva di pulito e mi ravvivava la pelle.

Guardai fuori: al pallore dell’alba la Pattarina appariva tutta sommersa. I cipressi del convento, ben sfoltiti dal vento, emergevano appena per la metà. Laggiù, fra la foschia, l’altura tonda delle Tane sorgeva come un’isoletta, già imbiancata. Si sentiva il russare, regolare e soddisfatto, degli altri che giacevano tutti ammucchiati, Saladino compreso. Mi stiracchiai, assaporando la beatitudine di trovarmi lì. Dopo tanto tempo, avvertivo la sensazione inebriante del vigore che sentivo tornare in me. Della pancia piena.

Chiunque fosse, da dovunque venisse, quell’essere era proprio buono. Perfino crudo.

Agostino Scolca

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