“La moschea degli estremisti”. Così oggi a tutta pagina il Resto del Carlino, riprendendo la notizia dell’inchiesta sul proselitismo per il terrorismo islamico che ha coinvolto anche personaggi che frequentavano il luogo di preghiera musulmano delle Celle a Rimini.
Ma è così?
«No e questi titoli di giornale non aiutano», risponde Brahim Maarad, anche lui intervistato dal Carlino in quanto responsabile della moschea delle Celle. Nato in Marocco nel 1989, Maarad vive a Bellaria da quando aveva 10 anni; oggi è giornalista professionista che firma per il Corriere Romagna come per l’Espresso, oltre che conferenziere e membro della segreteria dell’assessore regionale Emma Petitti.
«Ovviamente il giornalista deve fare il suo mestiere, ma così si crea solo allarmismo e un clima di cui non abbiamo assolutamente bisogno – continua – perché quel titolo non dà informazione, ma scrive una sentenza su fatti che sono ancora tutti da dimostrare. Inoltre, come ho già detto anche al Carlino, le persone indagate frequentavano il centro islamico, ma non vi avevano nessun ruolo direttivo o solo operativo, non c’entrava nulla con la moschea in quanto tale. Quindi non possono essere associate con quella facilità al centro islamico».
Ma come giudica l’intera vicenda?
«Stiamo ai fatti. Primo, e devo ribadirlo, queste persone non rappresentano il centro islamico di Rimini, non hanno mai avuto un ruolo pubblico e non hanno mai fatto proselitismo all’interno della moschea. Secondo, e soprattutto, queste persone finora sono solo indagate. Per reati pesanti, eppure sono a piede libero. Se fossero stati ritenuti pericolosi o star mettendo in atto piani, dubito che sarebbe stati lasciati ancora circolare, dopo che sono passati due mesi dalle perquisizioni effettuate».
Come centro islamico come vi state regolando?
«Ovviamente da parte nostra l’attenzione è sempre altissima e vigiliamo sempre. Ma non lo facciamo per fare un favore alle autorità. Lo facciamo perché crediamo sia il dovere morale di ogni persona: se tu vedi una minaccia, se tu vedi un pericolo, li segnali. Lo fai per la società, lo fai per te che puoi diventare una vittima. Non c’è un “noi” o un “voi”, siamo tutti ugualmente minacciati».
Avete avuto reazioni da parte dei riminesi?
«Sì e personalmente sto ricevendo diversi messaggi di riminesi che vogliono esprimere la loro solidarietà e la loro comprensione, per dire che questo non cambia nulla nei rapporti fra noi. I riminesi per fortuna ci conoscono, sanno chi siamo, cosa facciamo, cosa pensiamo».
E ora?
«Stiamo a vedere come si concluderanno le indagini.».
Mentre in altre occasioni lei ha detto di aver fatto delle segnalazioni, è vero?
«Esatto. E non solo. Ho scritto anche degli articoli, come uno degli ultimi in cui denunciavo una pagina Facebook che sosteneva apertamente le ideologie del sedicente “stato islamico”. Ma oltre a ciò, il nostro rapporto con le autorità è costante, ci vediamo, ci sentiamo, c’è una collaborazione continua, perché crediamo nella prevenzione. E poi c’è tutto l’altro aspetto».
Quale?
«L’aspetto culturale. Tantissimi nostri sermoni sono dedicati a condannare e combattere ogni terrorismo, a contrastare tutte quelle campagne che possono arrivare dalla Rete o dai social. E poi tutta l’esperienza fin qui accumulata ci dice che l’integralismo in Europa non passa dalle moschee, ma dal web e dalle prigioni, semmai. Per il semplice motivo che è impossibile fare proselitismo o indottrinamento in un luogo pubblico, perché le persone non potrebbero ascoltare un attimo di troppo chi li invita alla guerra senza reagire».
Ma nella nostra realtà, quanto è effettivo il rischio terrorismo secondo lei?
«Purtroppo sappiamo che nessun Paese è a rischio zero. Bisogna però dire che il caso dell’Italia è molto diverso rispetto ad altre nazioni. Se guardiamo a tutti i pricipali protagonisti di atti terroristici in Europa, vediamo che fanno parte delle nuove generazioni, il più delle volte sono nati e cresciuti in Paesi europei. In Italia abbiamo la possibilità di non ripetere gli errori che sono stati commessi in altri Paesi e secondo me in buona parte ci stiamo riuscendo, non tanto perché siamo più bravi, ma proprio per la struttura sociale e anche demografica che abbiamo nel nostro Paese. Da noi solo in alcune grandi città si stanno creando realtà separate, veri e propri ghetti di esclusione sociale e anche urbana: proprio quell’errore commesso altrove. Nei centri medi e piccoli, e Rimini ne è un esempio, questo non accade, perché ci si conosce, ci si frequenta, si è vicini di casa, si va nelle stesse scuole, ci si vede per quello che si è effettivamente. Questa è la battaglia che bisogna condurre, non dobbiamo far accadere che si creino zone destinate solo a certe etnie o a popolazioni di origine non italiana».
Stefano Cicchetti