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Michele Marziani, lo scrittore nomade

Con i soldi possiamo comprare tutto, tranne la felicità. Lavorare per vivere e vivere per lavorare spesso si mescolano e non sappiamo quando comincia una e finisce l’altra. Arriviamo a perderci, perdere la nostra identità, a non sapere più chi siamo e soprattutto quello che realmente vogliamo. Uno di quelli che hanno ritrovato se stessi e soprattutto la voglia essere soddisfatti del proprio lavoro, ormai da qualche tempo, si chiama Michele Marziani, ha 54 anni, ed è nato a Rimini.

Marziani e libro

Qual è il suo mestiere? Beh, qui le cose si complicano un po’: è stato un giornalista professionista molto stimato fino a un certo punto della sua vita, collaboratore, tra le altre cose, per l’Espresso, La Voce di Romagna, il Corriere Romagna, e ha collaborato a lungo anche per Chiamami Città. Poi, finalmente, ha trovato la sua strada: la narrativa. Marziani, però, non è solo diventato uno scrittore di successo ma, attualmente, è anche direttore editoriale per Antonio Tombolini Editore e direttore di una rivista letteraria che si chiama Il Colophon. Inoltre, conduce diversi laboratori di scrittura, ma soprattutto ama viaggiare. Tra le sue opere letterarie ricordiamo ‘Barafonda‘, ‘Nel nome di Marco’ (in omaggio al Pirata), ‘Umberto Dei’ e l’ultimo nato ‘Il Pescatore di tempo’. A metà luglio sarà in libreria con un nuovo romanzo: ‘La Figlia del Partigiano O’Connor.’

Marziani, quando ha deciso di mollare il giornalismo per la narrativa?

«A me è sempre piaciuto scrivere, così ho iniziato la mia carriera nel giornalismo. Poi, a poco più di 40 anni, mi sono accorto che questo mestiere non mi appagava fino in fondo, perché ero sempre stressato e arrabbiato con me stesso e con gli altri. Insomma, ero arrivato a un punto di non ritorno e così ho voluto dire basta. Ho lasciato il giornalismo per abbracciare fino in fondo la narrativa. Credo di essere sempre stato uno scrittore di romanzi, ma me ne sono accorto solo a un certo punto della vita: meglio tardi che mai, no? Quello che volevo era raccontare le cose come le vedevo io, come fa uno scrittore e non con l’occhio obiettivo e diretto del giornalista. Da questo momento in poi sono rinato ed è iniziata una nuovo capitolo della mia esistenza».

Secondo lei, il ruolo dell’intellettuale e scrittore è cambiato in questi ultimi anni?

«Le persone hanno da sempre il bisogno di evadere dalla realtà. Tutti noi abbiamo bisogno di credere in qualcosa, di aprire la mente e liberarci dai soliti stereotipi. Soprattutto, in questo periodo storico permeato da incertezze, crisi e oscurità politica e intellettuale, le persone sentono, ancora di più, il bisogno di sentirsi considerate, di non sentirsi sole. La scrittura, i romanzi, i libri e gli scrittori servono a dare un senso a molto di quello che ci circonda, a farci capire tante cose, a entrare dalla porta principale della società moderna in cui viviamo. Per me scrivere non è solo raccontare, ma dare anche una visione della realtà, condivisibile o meno non importa, l’unica mio obiettivo è quello di aprire ideali dibattiti con i lettori che leggono i miei libri. Leggere e scrivere ci permette di crescere e maturare sotto tanti punti di vista: è una medicina per la nostra anima».

A proposito di lettura e scrittura, la gente legge abbastanza oppure le percentuali sono sempre più in ribasso?

«In Italia, non si è mai letto molto. E anche in questo preciso momento storico gli italiani dimostrano scarso interesse per la letteratura. Però, c’è da sottolineare che sono cambiati i modi di scrivere e leggere, questo grazie alla potenza di internet e dei social network. Quindi, da un certo punto di vista, posso dire che su fb, twitter o whatsapp si scrive molto e di conseguenza si legge anche di più. Certo, coloro che scrivono sul web assomigliano poco nulla ai grandi pensatori del passato, ma comunque possiamo registrare una trasformazione degli usi e dei costumi della gente e dei strumenti di comunicazione e anche questa, per quanto bizzarra e poco ortodossa possa sembrarci, possiamo definirla lettura».

Lei si definisce uno scrittore nomade. La sua scrittura si è evoluta nel corso dei suoi viaggi o il suo stile è rimasto sempre lo stesso?

«No, è proprio questo il bello. Viaggiare mi permette di entrare in contatto con realtà e culture diverse dalla mia. Mi sono accorto che il mio modo di descrivere le cose, le persone, raccontare le storie cambia in maniera graduale, ed il primo a sorprendersi di questo sono proprio io. Non mi sento di appartenere ad un solo luogo. Sì, sono nato a Rimini, ma da genitori friulani che hanno vissuto temporaneamente nelle Marche, a San Leo. Ho vissuto a Rimini, Gozzano, Milano e Dublino. Insomma, non sono stato mai fermo e questo nomadismo mi ha permesso di diventare quello che sono ora».

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A quale sua opera letteraria si sente più affezionato?

«Non ne esiste una. Tutti i miei romanzi hanno qualcosa di speciale e unico, almeno per me. Il romanzo che finisco mi consente di gettare le basi per scrivere quello successivo, e così via. Come dicevo prima, ogni viaggio mi accompagna a quello successivo e così avviene con la scrittura. Scrivere e come viaggiare, non c’è ma un inizio e una fine, bensì solo una evoluzione del tutto».

Lei ha avuto il coraggio di cambiare per sentirsi meglio con se stesso e gli altri. Oggi, invece, complice anche la crisi, molte persone decidono di fare qualunque lavoro per arrivare a fine mese, magari vivendo infelici per tutta la vita. C’è un consiglio che si sentirebbe di dare loro?

«Io sentivo l’esigenza di cambiare vita, perché non ero soddisfatto di quello che stavo facendo. Oggi, questo tipo di coraggio latita, soprattutto tra i più giovani. La crisi, iniziata nel 2008 e non ancora finita, non ha certo aiutato a invertire questo trend e così il desiderio di molti è quello di aggiudicarsi il posto fisso e vivere una vita tranquilla dal punto di vista economico. Si deve scegliere tra pagare le bollette, mangiare, o seguire i propri desideri e aspirazioni. Io, per quanto mi riguarda, sono stato molto fortunato, perché sono riuscito a fare quello che volevo e ancora adesso, con la scrittura, riesco ad arrivare a fine mese. Essere felice, nella vita, è la cosa più difficile del mondo. Se uno pensa, però, di potersi realizzare in qualsiasi ambito, deve buttarsi, crederci fino in fondo, gettare il cuore oltre l’ostacolo. Non è detto che vada bene. A volte, anzi, ci si fa molto male. Ma non provarci rende maledettamente infelici».

Nicola Luccarelli

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