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Marco Bertozzi, da “Cinema Grattacielo” al western lappone-romagnolo

Fare cinema è una cosa seria. Per raccontare una storia sullo schermo, emozionare il pubblico e fargli vivere un’esperienza meravigliosa, bisogna saper toccare i tasti giusti. Ed è proprio quello che sta facendo ormai da diversi anni Marco Bertozzi, professore di Cinema documentario e sperimentale all’Università IUAV di Venezia, storico del cinema e regista con diverse pellicole all’attivo. La più recente è “Cinema Grattacielo”, interamente girata, appunto, al Grattacielo di Rimini, per raccontare le storie dei tanti abitanti di questa moderna Torre di Babele. Il 2 luglio, a un anno esatto dall’uscita riminese del film (premiato sia al Biografilm Festival di Bologna che al MAXXi di Roma), al Cinema Fulgor ci sarà una proiezione speciale. Ma proviamo a chiedere a Marco Bertozzi perché ha voluto intraprendere questa carriera e, soprattutto, come è nato questo progetto.

Che cosa vuol dire fare cinema per lei ?

«Esprimersi, raccontare storie, re-immaginare la comune esistenza attraverso una nuova composizione visiva. Un lavoro di rappresentazione e reinvenzione, in cui le forme filmiche che mi appassionano sono quelle del documentario contemporaneo. Un cinema capace di valicare i limiti posti alla semplice osservazione per comporre opere personali, al confine con l’arte visiva. Anche se la questione del ‘realismo’ è sconfinata. E ancor più nel cosiddetto cinema documentario. Luogo di semplificazioni, battaglie, fraintendimenti. Per la vulgata, l’approccio realista sarebbe il semplice filmare un frammento di realtà, una sua immagine tangibile. Un’ode alla verosimiglianza la cui l’immediatezza è stata spesso scambiata per uno specchio della realtà: un mondo già dato, che è sufficiente raccontare, contro cui si scaglia, ad esempio, Werner Herzog quando parla di “verità di pura superficie, la verità dei contabili”. Come superare il rischio che le immagini realistiche si pongano quale stereotipata conferma del luogo comune? Semplici moltiplicatrici di un già nota realtà di superficie? Ecco, forse l’aspetto che mi appassiona di più è proprio questo, il costante tentativo di superamento della ‘trappola realista’».

Quando ha deciso di intraprendere la strada della regia ? Si è ispirato a qualcuno?

«Dopo essermi laureato in Architettura, con una tesi e un documentario su Rimini – il titolo era “Lo scenario della vacanza nella Metropoli balneare romagnola” – feci il servizio civile in Cineteca. Era il 1990 e iniziai quello che per me divenne un anno fondamentale. Oltre a schedare il materiale filmico, venni impegnato in attività cinematografiche in alcune scuole e nell’organizzazione di rassegne cinematografiche. Feci i miei primi film corti, poi l’incontro fondamentale fu con Ermanno Olmi, che seguii alla Scuola di Bassano, e gli anni al Dams di Bologna (intere giornate al Cinema Lumière!) e a Parigi, per il dottorato».

Quali caratteristiche bisogna avere secondo lei per ricoprire al meglio questo ruolo ?

«Non esiste un percorso ideale per arrivare alla regia cinematografica. Alcuni compiono studi specifici, altri arrivano da discipline vicine – la storia dell’arte, la letteratura, l’architettura, la moda… – ma penso sia fondamentale una grande passione, a volte una vera e propria ostinazione, e una estrema consapevolezza dei difficili processi formali. La tecnica si impara, molto più difficile avere una visione personale».

Come è nato il progetto di “Cinema Grattacielo”? E perché secondo lei ha avuto successo?

«Ci abito da 13 anni e ho subito pensato che il Grattacielo meritasse un film: mi catturavano la luce, in continua mutazione, e il fatto che nonostante fosse un luogo artificiale mi sentivo a stretto contatto con la natura, con gli elementi atmosferici. Poi un film sul Grattacielo di Rimini è anche un film sull’Italia che cambia e il fatto vi si trovino abitanti di 18 nazionalità diverse, ognuno con i suoi diversi modi di vivere, costituiva uno stimolo forte: in quel microcosmo aperto, che riflette il cambiamento attraversato da Rimini e dall’Italia in questi ultimi decenni, mi sembrava di potere raccontare congiuntamente la storia di un edificio, quella di una città e quella dei desideri, forse delle paure, di chi vi abita. Anche perché alla nascita del Grattacielo Rimini è ancora ferita dalla guerra, le sue cicatrici evidenti e la grande torre diviene il simbolo di una rinascita epocale… Forse per questo, per questa originaria ‘follia’ progettuale, attira molta attenzione. C’è qualcosa di sacrilego, eppure di seducente, già al suo atto di nascita. E oggi molti riminesi sono curiosi di visitarlo, di sapere come ci si vive, di andarci ‘in gita’. Probabilmente il film ha contribuito a donare una nuova immagine al Grattacielo, inserendosi in un processo di rivalutazione partito con lo spettacolo teatrale Campanelli, nel 2007 e consolidato con la festa dei 50 anni del Grattacielo, nel 2010. Certo, una torre di centinaia di abitanti è un condensatore di storie che contribuisce ad arricchire Rimini e i suoi immaginari. Un edificio unico per una città dall’alto consumo simbolico: luoghi che fanno galoppare la mente e scatenare visioni e desideri».

 

Rimini è ancora un luogo cinematografico ? Secondo lei questa città ha dimenticato il suo Fellini?

«Per molti motivi penso che Rimini sia una città di cinema. Gode di molteplici set naturali, ha dato i natali a visionari di fama internazionale, come Federico Fellini e Paolo Rosa. Ha in se una cinematograficità diffusa, che ha portato non solo grandi registi – pensa a Zurlini – ma anche cantanti e letterati – De Andrè, Ligabue, Tondelli – a raccontarla in forma poetica. Sai, è una questione di immaginari: Rimini è una città complessa, ricca di stereotipi e, quindi, di sorprese folgoranti. Molte sono le idee circolanti sulla nostra città ma importante è comprendere che nessuna di queste è esaustiva e che Rimini è città ricca di accenti e sfumature inaspettate. Fondamentale resta nutrire la città del meglio che il pensiero e le arti contemporanee stanno elaborando. Siamo un luogo fortunato e se vogliamo dialogare con il mondo dobbiamo permetterci sguardi ambiziosi, in sintonia con temi e figure della migliore produzione artistica contemporanea. I riminesi, poi, sono visionari come pochi, procedono per sintetiche immagini folgoranti. Rimini ‘è’ cinema, e il suo potenziale filmico ancora dirompente! Poi Fellini è indimenticabile e Rimini se lo ricorderà per sempre. E’ nell’olimpo dei grandi artisti dell’umanità e a lui Rimini deve moltissimo, una vera fortuna sia nato qui».

I registi sono sempre a caccia di nuove idee, nuovi progetti. Anche per lei ?

«Le idee si moltiplicano ma la loro realizzabilità è lenta, complessa, costosa. Attualmente stiamo ancora distribuendo “Cinema grattacielo”. Il 7 giugno sarà al Museo del Cinema di Torino e il 2 luglio, a un anno esatto dalla affollata proiezione al Chiostro degli agostiniani, tornerà a Rimini, con una proiezione speciale al Cinema Fulgor. Poi partirò per il Canada, invitato a inaugurare la cattedra di Cinema italiano all’Università del Quebec. Resterò un anno a Montreal, forse il mio prossimo film nascerà fra la Romagna e il Quebec: che ne dice di un western lappone-romagnolo?».

Nicola Luccarelli

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