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“Made in Italy”, ovvero la dura vita della gente per bene

C’è una frase, all’interno del film, che sintetizza molto meglio di altre l’evoluzione e l’involuzione dell’Italia, dal secondo dopoguerra ad oggi: «Mio nonno ha tirato su questa casa, mio padre l’ha poi allargata, e io sono quello che non se la può permettere ed è costretto a venderla… ma il problema è che nessuno se la compra!».

È intorno a questa semplice ma fortissima considerazione generazionale pronunciata da Riko (Stefano Accorsi) che ruota l’intera crisi esistenziale (poi anche coniugale ed economica) di Made in Italy, il nuovo film di Luciano Ligabue – ispirato all’omonimo concept album del 2016 – uscito nelle sale cinematografiche italiane giovedì 25 gennaio e in anteprima a Rimini il 22.

Riko, che il rocker emiliano ha dischiarato sarebbe potuto essere un suo possibile alter ego se non avesse fatto il cantante, è un uomo “onesto”, “per bene”, come ce ne sono tanti nel nostro Paese; un operaio di un’industria salumiera, che insieme a sua moglie Sara (interpretata da un’ottima Kasia Smutniak) è stato in gioventù uno dei più belli e interessanti del gruppo, e che ora, però, vede crollare una a una tutte le certezze di una vita: il lavoro, la famiglia, le amicizie, la sua terra d’origine.

È tremendamente dura e frustrante, infatti, la vita della gente “per bene”, nel nostro Bel Paese: di chi rimane al suo posto e fa la sua parte senza sbraitare, come spiegherà un amico di Riko nella sua “Legge del furiere”: in vedetta non ci va mai chi si agita, chi fa la voce grossa, ma sempre e comunque chi rimane in silenzio al suo posto, senza ribellarsi. E Riko inizia a pensare che è proprio questa, la sua colpa: non sapersi ribellare a una vita che gli sembra sempre più umiliante.

«Non voglio che te lo fai andare bene… perché poi è un attimo a farsi andare bene tutto» dirà a un certo punto Riko al suo unico figlio Pietro, il primo della famiglia che frequenterà l’Università, rivolgendosi in realtà, però, più a se stesso. E infatti Riko a un certo punto non ce la fa più, e scoppia.

Non ce la fa più a tornare a casa con la puzza di maiale impregnata addosso, con uno stipendio di 1200€ e una pensione che viene costantemente posticipata; non ce la fa ad accettare che sua moglie abbia un altro, nonostante lui la tradisca abitualmente; non ce la fa ad accettare il fatto di aver fallito di fronte a suo padre e a suo nonno.

E allora sceglie di fare qualcosa, senza una motivazione precisa, perché “qualcosa va fatto”, come dirà al suo amico “Carnevale” (Fausto Maria Sciarappa). Fra discoteche, pistole, cortei e manganellate, incazzature e silenzi, alla fine le cose sembrano tornare finalmente a posto. Un equilibrio ritrovato che viene consacrato in una scena molto originale, in cui gli amici di Riko e Sara organizzano per loro un “secondo” matrimonio, con annessa seconda luna di miele, in giro per l’Italia.

Ma ecco che allora irrompe la Storia, quella con la S maiuscola, che in questo caso altro non è che l’attuale crisi economica. Riko commette una cazzata sul posto di lavoro, e il suo datore coglie l’occasione per licenziarlo, nonostante lavorasse lì da una vita. Un colpo pesantissimo che lo fa sprofondare in una profonda depressione, che riuscirà a superare (con l’acqua alla gola!) solo grazie alla forza e alla tenacia di sua moglie.

Nonostante qualche mancanza dal punto di vista tecnico (regia, montaggio, stacchi ecc.) Made in Italy è senza dubbio un film coraggioso, che senza agganci sensazionalistici riesce a raccontare la difficile normalità dei nostri giorni, trattando con grande forza anche due temi così delicati e privati come il suicidio e la perdita di un figlio, che proprio grazie all’arte Ligabue è riuscito in qualche modo a superare.

In fin dei conti, Made in Italy altro non è altro che un “ritorno a casa”, sia per il personaggio Riko che per l’attore Stefano Accorsi, che proprio grazie a Ligabue vinse il David di Donatello come miglior attore protagonista in Radiofreccia, venti anni fa.

Un’opera molto in linea con i due film precedenti, in cui l’artista emiliano aveva dimostrato di essere fra i migliori interpreti a saper raccontare il mondo della provincia italiana – soprattutto in Radiofreccia, un po’ meno in Da Zero a Dieci. E non a caso, verso la fine del film, Ligabue si affida alle parole di Cesare Pavese, che forse meglio di chiunque altro l’ha saputa raccontare:

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.»
(La luna e i falò)

Edoardo Bassetti

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