‘Tin Bota’. Una pittoresca locuzione di casa nostra, ‘adottata’ perfino dalla Presidente della Comunità Europea, che ora campeggia anche sulle nostre bandiere accanto ai tradizionali Gallo e ‘caveia’.
Già. Come ha riconosciuto sui luoghi del disastro un commosso Presidente Mattarella, siamo davvero ‘un popolo abituato a non arrendersi mai’. A tener botta. A ‘nu mulè’. E, nella tragica evenienza di un cataclisma ecologico di proporzioni mai viste, abbiamo dato anche ampia testimonianza del sentimento identitario che da sempre anima la nostra Regione.
Beh, ormai è acqua passata, i giochi sono stati fatti, rien me va plus… ma lasciatemi dire, sommessamente, che l’abbraccio solidale e affettuoso tra città sorelle dei ‘burdell de paciug’ mi richiama alla mente una amichevole polemica intercorsa, diversi anni fa, con Roberto Balzani.
Avevo conosciuto l’ex Sindaco di Forlì (e professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Bologna) in occasione della comune attività prestata a sostegno del Referendum che avrebbe sancito il passaggio dei sette Comuni dell’alta Valmarecchia (i magnifici sette!) nella provincia di Rimini. E ne avevo apprezzato la profonda cultura e (merce che si fa sempre più rara!) il senso dell’umorismo. Fu quindi con un certo disagio che, qualche tempo dopo, mi indussi a contestare le conclusioni cui era pervenuto nel suo “La Romagna, storia di una identità”. Identità inesistente, secondo lui, in quanto frutto di un vero e proprio “immaginario” politico e culturale”, a partire da una Romània contrapposta alla Longobardia durante il dominio bizantino, fino alla pseudo identità territoriale inventata da Napoleone col suo “Dipartimento del Rubicone” e al Duce che promuove la “sua” regione culla dell’Uomo Nuovo fascista, fondendo l’identità romagnola folcloristica e dialettale con le vestigia della Romanità Classica.
In conclusione e in estrema sintesi, il tratto più distintivo dei romagnoli sarebbe per l’Autore… la fedeltà al proprio campanile.
Dando doverosamente atto dei miei limiti, mi limitavo a richiamare un dato storico incontestabile. E cioè che quando, raggiunta l’unità, si vollero delimitare le varie regioni, il romagnolo (di Russi) Ministro dell’Interno Carlo Farini propose e ottenne l’incorporazione della Romagna negli ex ducati e nelle ex Legazioni Pontificie, “affinché nel loro moderatismo venga stemperato il rivoluzionarismo dei Romagnoli”. Il che significa, probabilmente, che se la Romagna non si è mai costituita in regione autonoma, il motivo starebbe nel fatto che è stata la vocazione repubblicana anticlericale e un po’ anarchica dei suoi campanili riuniti, a preoccupare sempre un po’ tutti. A partire dal Re Galantuomo… minacciato di impiccagione mediante ‘le budella dell’ultimo prete’ secondo la canzonaccia rivoluzionaria cantata in coro da Rimini a Ravenna ai tempi gloriosi della Repubblica Romana.
Osservavo, per inciso, che il nostro sentimento unitario è di gran lunga superiore a quello di molte altre regioni Italiane che non hanno mai avuto problemi ad essere riconosciute come tali. Tanto per fare un esempio, in Toscana “è meglio un morto in casa che (rispettivamente, a seconda della città confinante) un Pisano (un Livornese, un Fiorentino, ecc.) sulla porta”. Terminologia inconcepibile (per non dire ‘contro natura’) tra città romagnole.
Concludevo con un’ultima notazione, che ritengo tuttora significativa sotto il profilo identitario anche se i costumi e le tradizioni goliardiche appartengono ormai al giurassico. All’ Università di Bologna, il Vassallo del Castello di Rimini, Nobile del glorioso “Feudo Goliardico Romagnolo”, non si sognava neppure di disconoscere l’autorità del Gran Feudatario di Ravenna sul suo e sugli altri Castelli della nostra regione. Eravamo organizzatissimi, coesi, fieri di essere romagnoli. E tutti assieme, abbracciati, Riminesi, Forlivesi, Cesenati, Faentini, Imolesi, Ravennati, cantando in coro le nostre canzoni e volendoci un bene dell’anima, abbiamo compiuto imprese che ormai fanno parte della leggenda.
Anche questa è storia.
Giuliano Bonizzato