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C’era una volta la disco: 40 anni di club culture in un docufilm con la riviera protagonista

“La discoteca era un palcoscenico”, “la terra sotto i piedi si muoveva e noi stavamo dentro, nel magma”: sono solo alcune delle sensazioni provate nei club italiani dagli anni Sessanta ai Novanta la cui storia è stata tracciata nel docufilm “Disco Ruin” (40 anni di club culture italiana) diretto da Lisa Bosi e Francesca Zerbetto e presentato lo scorso ottobre in preapertura al Festival del Cinema di Roma. La pellicola sarebbe dovuta uscire nelle sale ma, data l’emergenza sanitaria in atto, aspetterà la riapertura per approdare poi in aprile su Sky Arte, tra i collaboratori del progetto insieme al media partner Radio m2o. La produzione è firmata SonneFillm e K+ e “Disco Ruin” gode anche del sostegno delle Film Commission di tre regioni: Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. Importante anche il contributo di MSGM per il sostegno e i costumi di scena.

Lisa Bosi, che oltre a dirigere il film è anche architetto, ci ha raccontato gli sviluppi e quanto sia stata fondamentale la Riviera Romagnola nella storia delle discoteche italiane: “qui ha effettivamente la parte da leone”.

Francesa Zerbetto, Ondina Quadri e Lisa Bosi al Festival del Cinema di Roma

Com’è nata l’idea del docufilm? «Data anche la mia formazione, siamo partite dall’osservazione delle rovine di questi luoghi dal punto di vista architettonico – racconta la regista –. Queste enormi astronavi testimoni di un’epoca che non c’è più e che ha avuto la sua massima esplosione negli anni ’90 in una sorta di nomadismo notturno. Ho sempre vissuto il mondo delle discoteche da vicino, facendo anche la pr in Riviera, e quindi ci tenevo a raccontare la storia da un punto di vista diverso da quello stereotipato dell’opinione pubblica che si concentra sulle droghe o altri problemi. Volevo mostrare una realtà performativa in cui ogni sabato si veniva a creare qualcosa di nuovo grazie ai grandi mezzi dell’epoca. Volevamo raccontare la storia di giovani (perché anche i direttori artistici dei locali lo erano) che hanno portato alla creazione di vere e proprie opere d’arte e performance inedite. Abbiamo fatto parlare direttamente i protagonisti da Daniele Baldelli a Claudio Coccoluto passando per Ralf, Alex Neri, Leo Mas e tanti altri».

Nico Note

Quali luoghi della Riviera e quali protagonisti emergono nel racconto? «Gli albori della Riviera ci sono stati raccontati direttamente dalla grande artista riminese Nico Note (Nicoletta Magalotti), poi Maurizio Monti per l’Echoes di Misano e Ethos Mama Club, mentre la figura di Loris Riccardi per il Cocoricò di Riccione ci è stata tratteggiata dai ricordi di Ferruccio Belmonte e Nico Note. Abbiamo intervistato Gianni Andreatta al Grand Hotel di Riccione per farci raccontare com’era nato il primo afterhours “Diabolik’a”. Raccontiamo la nascita dell’Altromondo a Rimini partendo dagli anni ’60 e intervistando l’architetto Pietro Derossi; c’è la storia della Baia degli Angeli che nel 1975 a Gabicce ha bruciato sui tempi di due anni anche lo Studio 54 di New York. La Riviera è sempre stata all’avanguardia per quello che riguarda il mondo della notte. Sabrina Bertaccini ci ha raccontato come sono nate “Le pettegoliere”, mentre Daniele Baldelli ha tratteggiato la corrente dell’afro music nata nel vostro territorio e poi portata in tutto il Nord Italia. Non mancano poi le rovine del Melody Mecca».

Quali aspetti caratterizzano le varie epoche? «Per gli anni Sessanta abbiamo intervistato due grandi architetti italiani come Ugo La Pietra e Pietro Derossi. In questi anni si sviluppa l’architettura radicale che non si basa solo sulla costruzione ma anche sul gesto e la performance. Le prime discoteche (si pensi ad esempio al Piper di Roma) sono state concepite come un “contenitore per il ballo” che doveva essere molto flessibile per ospitare ogni sabato uno spettacolo differente (per questo c’erano binari per le luci sul soffitto, mobili con le ruote facili da spostare). Erano contenitori vuoti da riempire con tutte le arti e da lì passava anche quella alta come l’esperienza del Living Theatre. Negli anni ’70 è arrivata la disco music dall’America con i pavimenti colorati e in questo periodo nasce la figura del dj. Mentre fuori tuonavano gli anni di piombo, dentro ai club si poteva staccare da tutto e isolarsi in una bolla per ballare, divertirsi e non pensare ad altro. Con gli anni Ottanta si assiste a una grande attenzione per la moda (è il momento del Plastic di Milano e dell’esplosione del Kinki di Bologna): si comincia a fare selezione all’ingresso e tutti gli intervistati ci hanno detto che passavano l’intera settimana a pensare cosa indossare il sabato. L’aspetto importante non era tanto portare abiti firmati quanto esprimere una propria personalità ed essere protagonisti della messinscena. Parlando degli anni Novanta non potevamo esimerci dal discorso della droga e dell’arrivo dell’ecstasy: è stato come gettare benzina sul fuoco e da lì la situazione ha perso il controllo facendo diventare tutto eccessivo ed entrando nella lente d’ingrandimento dell’opinione pubblica da questo punto di vista. Per noi però è la storia di numerosi giovani capaci di attraversare l’Italia per andare a ballare e della diffusione di tanta arte. L’attrice Ondina Quadri è il nostro Caronte tra le varie epoche, cadenzate anche da scritti di Pier Vittorio Tondelli, Isabella Santacroce e Fabrizia Bagozzi».


Qual è la colonna sonora del film? «Ne ha creata una ad hoc Emanuele Matte, poi abbiamo chiesto ai dj intervenuti alcuni brani e tra questi Nico Note ce ne ha dati anche più di uno, oltre a Alexander Robotnick, Daniele Baldelli, Leo Mas, Alex Neri, Francesco Farfa e Paolo Martini, Gianluca Pandullo che hanno arricchito il lavoro».

Avete pensato ad altre possibili rinascite per questi luoghi abbandonati? «Per me sono come Pompei, rovine di una passata civiltà che non c’è più. Ci sono stati casi in cui si è tentato di destinarli a nuovi usi, ad esempio per il Woodpecker di Milano Marittima il Comune di Cervia ha indetto un bando e già al suo interno ospita i murales di Blu. Forse riempirli di arte ed eventi potrebbe essere una soluzione. Sono state strutture che hanno segnato la storia dell’architettura a livello mondiale. Il Woodpecker, ad esempio, fu costruito tutto in vetroresina dall’architetto Filippo Monti, e l’Emilia Romagna è piena di strutture “a cupola” grazie all’intuizione di Bini che gonfiava con aria il cemento armato realizzando questi “funghi” che campeggiano lungo la zona, diventata la sua “palestra”. Il Binishell è diventato famoso in tutto il mondo. Erano luoghi immaginati dagli architetti per essere osservati di notte sotto il filtro magico delle luci».

Irene Gulminelli

Il Woodpecker a Milano Marittima

Ecco il trailer di “Disco Ruin”:

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