Dopo il successo di Sotto il sole di Riccione (qui un’intervista alla sceneggiatrice), Netflix sceglie di tornare sulla riviera romagnola con L’incredibile storia dell’Isola delle Rose. Sebbene la materia prima fosse di ottima qualità (Sydney Sibilia alla regia, Elio Germano e Matilda De Angelis nel cast), la ciambella sembra però non essere uscita con il buco. O meglio: a livello di pubblico probabilmente non ci saranno problemi, ma stavolta c’era davvero la possibilità di realizzare una pellicola di alta qualità, e si è deciso deliberatamente di non farlo.
A differenza del teen movie estivo, infatti, nato da un soggetto originale di Enrico Vanzina con l’intento da parte di Netflix di valorizzare giovani attori già presenti nel suo palinsesto (come ad esempio Ludovica Martino di Skam Italia), L’isola delle Rose è un film costruito su una storia vera che costituisce da sola un ottimo soggetto cinematografico; ha alla regia uno dei più innovativi autori della commedia italiana (basti ricordare come la trilogia di Smetto quando voglio abbia svecchiato il panorama nostrano) e vanta nel cast quello che è probabilmente il migliore attore del nostro Paese.
Era lecito, dunque, aspettarsi qualcosina in più rispetto a un film piacevole, come era stato legittimamente (ed efficacemente, aggiungo io) Sotto il sole di Riccione. Cioè che fa rabbia, da amanti del cinema, è l’impressione che si ha appena spento il computer (stavo per dire appena usciti dalla sala!): ovvero, che se L’incredibile storia dell’Isola delle Rose non è il film che sarebbe potuto essere, ciò è dovuto innanzitutto (e deliberatamente) da chi l’ha realizzato (e distribuito). La qualità della pellicola è programmaticamente limitata, infatti, dalla natura transnazionale della sua distribuzione, che implica la contemporanea uscita del film in tutto il mondo: ciò ha portato (o costretto, non potremo mai saperlo) la produzione e gli autori a realizzare un’opera che fosse buona, sin da subito, anche per il pubblico internazionale. E questo imperativo ha finito per inquinare un film che sarebbe potuto essere molto di più, che buono soltanto.
Non a caso si è scelta una storia ambientata a Rimini, che negli Stati Uniti è associata a Fellini (e all’immagine trasognata che ne diede in film come I Vitelloni e Amarcord), e in generale rappresenta nell’immaginario di tutto il mondo la meta balneare per eccellenza – non è casuale, a tal proposito, che ci sia un personaggio “gaudente” d’origine tedesca, interpretato da Tom Wlaschiha. All’attrattività internazionale dell’ambientazione, vanno aggiunti poi veri e propri cliché legati alla politica e alle forze armate italiane che non possono che confermare gli stereotipi dilaganti all’estero ̶ che per quanto potenzialmente verosimili risultano nel film assolutamente imbarazzanti: dal naso carnevalesco di Luca Zingaretti, che interpreta il Presidente del Consiglio Leone in un romanesco improbabile, al parodistico Ministro dell’Interno Restivo interpretato da Fabrizio Bentivoglio, per non parlare dei due agenti dei servizi segreti imbranati che rasentano davvero l’avanspettacolo, insieme al generale della marina che dà ordine di bombardare l’isola perché vuole “tornare a casa presto”.
Al di là di questi (deliberati) limiti, ci sono senza dubbio anche alcune trovate da sottolineare: come quella, in fase di sceneggiatura (scritta da Sibilia e Francesca Manieri) di legare l’idealismo dell’ingegner Rosa (Elio Germano) al suo amore per Gabriella (Matilda De Angelis); la fotografia di Valerio Azzali, anche, sembra catapultarci in un’epoca mitica per quanto relativamente recente, e immortala forse una delle più belle “Bologne cinematografiche”, dai portici di Via Zamboni a Piazza Santo Stefano; i dialoghi, pure, sono di buona qualità, tranne quando si addentrano nelle stanze del potere, dove perdono vistosamente efficacia; ottima la colonna sonora, che riesce talvolta a colmare le lacune di una trama che tende ad affievolirsi; da segnalare infine la prova degli ottimi Leonardo Lidi (che viene dal teatro) e Andrea Pennacchi (divenuto famoso negli ultimi tempi per i suoi monologhi a Propaganda Live).
In conclusione: ben venga Netflix quando distribuisce e collabora alla produzione di opere italiane, che certo non se la passavano meglio prima dell’avvento delle piattaforme streaming. Ma ciò non può compromettere in maniera decisiva l’intero processo creativo, che per essere credibile deve ̶ appunto ̶ nascere da una necessità autoriale, e non sempre e comunque da un progetto nato a tavolino, artificialmente, che potrà pure avere successo, forse, ma difficilmente riuscirà a vincere lo scorrere del tempo (e della lista dei “suggeriti”).
Edoardo Bassetti