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LIBRI SOTTO L’OMBRELLONE: Moby Dick, o il mistero dell’esistenza

Compie 170 anni Moby Dick o la Balena, il capolavoro di Herman Melville. Una delle storie più note della letteratura mondiale. L’ossessione del Capitano Achab per ‘la Balena Bianca’. È sicuramente il libro più adatto da sfogliare seduti di fronte al mare.

Anche se a Rimini non ci sono le onde oceaniche, né profondi fondali, né transito di balene, resta comunque questa infinita distesa d’acqua che accompagna lo sguardo sino all’orizzonte. Fiutare salsedine per entrare in sintonia con un desiderio così intenso da diventare ossessione. Quella del capitano Achab che porta i segni sul corpo dell’ultimo incontro con questo animale dalle sembianze mitologiche. Un gigantesco capodoglio che porta un promontorio sul dorso di colore bianco. Che gli ha strappato una gamba, inabissandosi poi sul fondale oceanico.

Melville sceglie di far raccontare la storia a Ismaele, l’unico marinaio sopravvissuto all’inabissamento del Pequod, la baleniera comandata dal capitano Achab, che a partire dalla sua prima apparizione appartiene più al divino che all’umano. Un uomo che ha coltivato le esperienze di vita più estreme, che si è spinto nei territori più periferici dell’umanità, dove si affievoliscono le presenze addomesticate delle socialità e pullula un sottobosco di bestialità primitiva. Un balzo indietro verso l’origine della specie.

E il racconto di Ismaele assume tutta la potenza del superstite al naufragio, del super-testimone, che è qualcosa di ancora più profondo di una semplice testimonianza. Perché il testimone assiste a fatti che apparentemente non lo riguardano, di cui si limita a riportarne l’accadimento. Il superstite non contempla il naufragio stando ad osservare dalla riva. Il superstite si trova sull’imbarcazione che si inabissa. Scampa alla morte.

Così il racconto si tinge della forza di chi è sfuggito alle maglie della morte è può imprimere nelle parole tutta la ferocia dell’urlo di terrore di averla mancata per un soffio. Ismaele, il narratore, fin dalle prime righe rivela al lettore lo spirito con cui ha affrontato il viaggio: “[…] avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione […] questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola”.

Quanta affinità nel percepire i malesseri della vita tra Ismaele e Cesare Pavese, il famoso scrittore piemontese che ha portato la letteratura americana in Italia e che di questo capolavoro né è l’insuperato traduttore in italiano. Moby Dick è la cronaca dettagliata di cosa accade nella mente di Achab, che a un certo punto della vita sceglie di avere una vocazione assoluta, separata da ogni altro pensiero e gesto. Catturare la balena. Vendicarsi dell’affronto subito e pagato con l’amputazione di una gamba.

Simbolicamente Achab dopo la perdita dell’arto ha perso l’equilibrio. Sulla bilancia della vita i pesi non sono più equamente distribuiti. Colpa di quell’incontro fatale. Con il gigantesco animale con la gobba di colore bianco. Il colore della purezza, del candore, della grazia. Il colore della speranza del futuro, della fiducia nelle persone. Dietro a ogni candore – evidentemente – si nasconde il mostro.

Morte e dolore hanno senso solo per gli uomini. In natura accadono, semplicemente. Il sussulto della specie porta gli animali all’istinto di schivare la morte, senza sapere cosa essa sia. Solo l’uomo è riuscito a rappresentarla, a portarla nel presente dei suoi pensieri. Moby Dick rappresenta allora il male, il mistero della vita, la natura che si manifesta non per infierire ma solo per essere. Nella forza della natura non esiste la volontà.

Achab è l’uomo che ingaggia una lotta titanica con tutte queste oscure forze superiori. L’energia del cosmo che non si preoccupa degli effetti essendo inconsapevole di esserne causa. Il capitano Achab sfida le forze dell’universo, mettendosi sulle tracce del mostro che porta disequilibrio e disordine tra gli umani. Tracciando sul corpo e sull’anima il destino individuale, che corrisponde al destino di tutti.

Destino come lo intendevano i pagani: una legge suprema e immutabile cui l’uomo è asservito. Achab è simbolo dell’indomitezza. Di chi rifiuta di essere in balìa di potenze superiori in grado di segnare per sempre le vite delle persone. La Balena Bianca incarna il senso misterioso dell’esistenza e il capitano è il cacciatore che si mette al suo inseguimento. Colui che dedica tutta la sua vita in attesa di agguantare quel senso che perennemente sfugge – perché, dopo pochi attimi in cui si manifesta in superficie, la corsa è tutta nella pancia del mare -, allegoria di un infinito inconscio che ci circonda e nel quale rischiamo ogni istante di affondare, proprio come accade all’ostinato protagonista.

Che al termine di questo lungo inseguimento attraverso mille mari, nel tentativo disperato di avere la meglio con la balena, resta impigliato nella corda con la quale aveva tentato di arpionarla e si inabissa nel profondo dell’oceano, nell’estasi tremenda e definitiva di essere diventato un corpo solo con la sua ossessione. Iniziazione e finalizzazione.

Melville conosce l’arte del narrare, creando una spirale di attesa della comparsa del capitano Achab nella storia. Ci vogliono più di cento pagine per giungere alla sua descrizione, mentre lui ancora non si manifesta all’equipaggio. “È un uomo strano”. “È un uomo grande”. “Non è religioso e pare un dio”. “Non parla molto ma quando parla potete starlo ad ascoltare”. “È stato all’università e in mezzo ai cannibali, è abituato a cose meravigliose più profonde del mare, ha piantato la lancia in nemici più forti e più straordinari delle balene”.

Si comprende subito di essere davanti a un personaggio mitologico. Verso il quale provare un sentimento misto di pena, paura e simpatia, come suggerisce Ismaele. Ma dopo questo parziale tratteggio, Melville lascia scorrere altre cento pagine prima di farlo comparire al cospetto dei suoi marinai. Apparizione carica di una promessa di ricompensa a chiunque gli segnali la Balena Bianca, la responsabile di averle “rasato” una gamba.

E poi, il celeberrimo discorso di Achab, con il quale prendo congedo augurandovi una intensa e profonda lettura in riva al mare. “Tutti gli oggetti visibili, vedi, sono soltanto maschere di cartone, ma in ogni evento, nell’atto vivo, nell’azione indubitata, qualcosa di sconosciuto, ma sempre ragionevole, sporge le sue fattezze sotto la maschera bruta. E se l’uomo vuol colpire, colpisce sulla maschera! Come può il prigioniero arrivar fuori se non caccia attraverso il muro? Per me la Balena Bianca è questo muro, che mi è stato spinto accanto. Talvolta penso che di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Essa mi occupa, mi sovraccarica: io vedo in lei una forza atroce innerbata da una malizia imperscrutabile. Questa cosa imperscrutabile è ciò che odio soprattutto: e sia la Balena Bianca il dipendente o sia il principale, io sfogherò su di lei questo mio odio. Non parlarmi d’empietà, marinaio: io colpirei il sole, se mi facesse offesa”.

Paolo Vachino

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