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“Libero deve morire”: un dramma della Resistenza romagnola

Il 9 luglio 2014 Giorgio Fedel (1936-2014) scriveva una nota finale al suo libro “La prima resistenza armata in Italia alla luce delle fonti britanniche e tedesche” (Fondazione Riccardo Fedel – Comandante Libero, 2014) in cui lanciava un pesante j’accuse verso alcuni capi partigiani dell’8.a Brigata Garibaldi quali  “mandanti dell’omicidio, e quindi i veri colpevoli” di Riccardo Fedel, nome di battaglia “Libero” (1906-1944). “I due decisero di assassinare Libero senza aver ottenuto alcuna autorizzazione dai comandi superiori”. I nomi che Fedel fa sono quelli di Ilario Tabarri (1917-1970), detto “Pietro”, e di Guglielmo Marconi (1903-1968), detto “Paolo”; nonché quelli di tre esecutori materiali e di otto favoreggiatori.

Riccardo Fedel nelle foto segnaletiche del fascicolo del Casellario Politico Centrale (CPC)

Un’accusa pesantissima fatta da Giorgio Fedel pochi giorni prima della sua morte improvvisa l’11 luglio 2014, a 78 anni, nella sua casa di Treviso. Giorgio, terminata la sua attività lavorativa, dai primi anni del 2000 aveva iniziato a cercare documenti, ad intervistare protagonisti ancora in vita, a chiedere incontri e confronti con gli storici degli Istituti Storici della Resistenza della Romagna e di Bologna. Più volte anch’io, allora Presidente dell’Istituto Storico di Rimini, mi sono incontrato e confrontato con Lui, così come del resto avevano fatto i responsabili degli altri Istituti Storici romagnoli.

Giorgio non era un “nemico”, anche se discutere con Lui non era facile. Voleva verità, una verità difficile da appurare a distanza di tanto tempo. E comunque riguardante una pagina difficile della storia antifascista e resistenziale romagnola. Giorgio aveva ragione a chiedere di sapere dove era stato sepolto suo padre e le sue ricerche sono state importanti per ricostruire le vicende della prima resistenza romagnola fra il settembre 1943 e l’aprile 1944, anche per smentire quello che Giorgio Bocca nel 1966, in “Storia dell’Italia partigiana”, aveva affermato, ovvero che la Resistenza in Emilia-Romagna era nata con “notevole ritardo” rispetto al resto del Paese.

Riccardo Fedel militare

Ma il j’accuse di Giorgio, come del resto anche Lui ben sapeva, era tutto indiziario. “Mio padre fu ucciso da altri partigiani, per ragioni e in circostanze che è stato molto difficile accertare sul piano storico. In questi anni, abbiamo costantemente cercato di condividere gli esiti (sempre provvisori) delle nostre indagini con la comunità scientifica e l’opinione pubblica. Ed è quello che intendo continuare a fare con questo mio scritto, cui deve però essere attribuito un senso più politico che storiografico. Sul piano storiografico, infatti, mi sto accingendo a compiere un atto discutibile. Mi sto accingendo, cioè, ad indicare delle ipotesi, lasciando a chi verrà dopo di me il compito di verificarle”.

Questa nota di sei pagine, se Giorgio non fosse improvvisamente scomparso, avrebbe provocato con Lui accesissime discussioni ma, come gli ho sempre ripetuto, gli Istituti Storici non hanno verità prefissate, non devono nascondere nulla. La Storia, quella con la S maiuscola, va raccontata sulla base di documentazione certa e di fatti appurati e riscontrati. E a questo abbiamo sempre voluto attenerci. Sapendo per primi che le vicende resistenziali non sono sempre state una “bella guerra”.

Scrive Marcello Flores, introducendo il lavoro miscellaneo “La Resistenza in Italia. Storia, memoria, storiografia” (goWare, 2018), parlando della violenza interna alla Resistenza: “Su questo terreno è stata a lungo la volontà dei protagonisti di non ‘macchiare’ il valore ideale e morale della Resistenza con episodi volutamente derubricati a tradimento o indisciplina ad avere impedito un’analisi aperta e onesta di come in molti casi fosse degenerato lo scontro politico e militare all’interno della Resistenza”.

Inizio novembre 1944. Meldola. Il Comandante “Pietro” (Ilario Tabarri) al centro

“La disomogeneità del movimento partigiano, la contesa per i rifornimenti alleati, la politicizzazione accompagnata da una disciplina intransigente anche sul piano ideologico, lo scarso coordinamento, la presenza di comandanti carismatici e ribelli, la volontà politica di una riorganizzazione gerarchica che ha luogo soprattutto su spinta comunista nella tarda primavera del 1944, sono tutti elementi da tener presenti per meglio comprendere i casi esemplari (tra i quali quelli di Facio, di Libero, di Porzus)”.

Nel volume sopra citato Mirco Dondi nel saggio “Il conflitto interno al movimento di Resistenza”, nel capitolo 8 “Comunisti contro: Ilario Tabarri e l’esecuzione di Riccardo Fedel ‘Libero’”, prova a fare il punto su questa vicenda. “Fedel e Tabarri hanno due visioni strategiche distanti e le situazioni che maturano nel tempo aggravano i contrasti culminando nel tragico epilogo”: il 12 giugno 1944 Fedel viene fucilato da membri della 29.a brigata Gap di Forlì.

Diversi sono anche i loro temperamenti: pedissequo, nel rispetto degli orientamenti di partito, Tabarri; indipendente dalle indicazioni suggerite Fedel, come quando abbozza trattative con i tedeschi e i fascisti o quando emana un contro bando, in opposizione alla chiamata alle armi della Rsi, minacciando di ritorsione i familiari dei giovani che non si arruolano con i partigiani. Quest’atto rischia di compromettere irrimediabilmente il rapporto con la popolazione”.

A Fedel si imputano anche errori strategici, come aver concentrato l’intero corpo della brigata in una sola area e studiato lo spostamento di questa in una zona pericolosa (Balze di Verghereto), a ridosso dei lavori di fortificazione della Gotica”.

“Ancora di più preoccupa la tattica attendista di Libero, il suo desiderio di concentrare uomini, anche disarmati, per poter creare una corposa formazione capace di controllare un’ampia area tra la Romagna e il nord delle Marche che possa divenire base di appoggio per l’intero movimento nell’Italia centrale – intento velleitario, estraneo alla realtà della lotta partigiana”.

Il 20 marzo Libero è sollevato dal comando con una procedura regolare e senza spargimento di sangue. Quando il 27 marzo, Tabarri gli succede come responsabile l’avvicendamento è, in apparenza, morbido. Fedel si vede assegnato il ruolo di capo di Stato Maggiore e in questa veste, il giorno dopo, esprime il suo dissenso sulla nuova strategia manifestando il desiderio di combattere in pianura nei Gap. Il contrasto è aperto e ormai insanabile.

Guglielmo Marconi (“Paolo”)

Fra accuse e controaccuse il 22 aprile 1944 Fedel è condannato a morte dal Tribunale militare delle formazioni partigiane. “Le regole di disciplina partigiana, insieme alla disciplina di partito si sommano nell’esecuzione di questa sentenza”.

Nel “Rapporto generale” di Ilario Tabarri (pubblicato a cura di Dino Mengozzi in “L’8.a Brigata nella Resistenza. Documenti 1943-1945”, 2 volumi, La Pietra, 1981 e recentemente riedito a cura di Nicola Fedel e Rita Piccoli “Edizione critica del Rapporto Tabarri. Rapporto generale sull’attività militare in Romagna (dall’8 settembre 1943 al 15 maggio 1944”, Fondazione Riccardo Fedel – Comandante Libero, 2014) “Pietro” sostiene che “Libero” era un avventuriero e andava eliminato “per il pericolo che rappresentava per essere a conoscenza di troppe cose dell’organizzazione e per avere la spiccata tendenza di passare nel campo nemico”. E Marconi nel volume “Vita e ricordi sull’8.a Brigata romagnola” (Maggioli, 1984) racconta dell’inseguimento a Libero per recuperare i soldi lanciati dagli Alleati per la formazione partigiana e di come poi lo avesse lasciato libero, con grande disappunto di Tabarri quando gli consegnò i soldi recuperati.

Su questa tragica vicenda si è buttata tutta la stampa di destra italiana con scopi tutt’altro che di ricerca della verità storica, nonché in maniera corposa anche Giampaolo Pansa (in “I gendarmi della memoria”, Sperlin & Kupfer, 2007): “L’assassinio di Riccardo Fedel, il comandante Libero, fu deciso dal vertice militare e politico del Pci romagnolo”. “Questo comandante era stato tradito e ucciso non dai fascisti o dai tedeschi, bensì da altri capi della Resistenza. Anche loro comunisti, sia pure di un genere diverso dal compagno destinato a morire. E, dopo morto, vilipeso nella memoria, in modo malvagio. Con un accanimento odioso”.

Giorgio Fedel

E’ il cesenate Ilario Tabarri, “Pietro”, in primo luogo ad essere messo sotto accusa da Giorgio Fedel e da tutti coloro che, semplificando e dandoci all’ingrosso, lo individuano come mandante dell’assassinio di Libero. Ma al fianco di Tabarri è messo anche il riminese Guglielmo Marconi, “Paolo“, suo vice e spesso braccio operativo della brigata romagnola. Due comunisti duri, intransigenti, formatisi nella lotta clandestina al fascismo in patria e poi all’estero, partecipanti alle brigate internazionali in Spagna, mandati al confino. 

In una situazione complicata e complessa in zona di combattimento come si verificò nei primi mesi del 1944 nella formazione partigiana sull’Appennino, in mancanza ancora di organismi politici definiti a cui rapportarsi (il C.L.N. forlivese si costituirà solo a maggio 1944), molte mediazioni non furono possibili.

Scrivono Roberta Mira e Simona Salustri, due ricercatrici universitarie bolognesi, a cui l’Istituto Storico di Forlì ha dato pieno accesso a tutte le carte in suo possesso (dell’8. Brigata, del CLN forlivese, della 28.a GAP, del PCI forlivese) nel volume “Partigiani, popolazione e guerra sull’Appennino. L’8.a Brigata Garibaldi” (Il Ponte Vecchio, 2011) a proposito della vicenda di Libero: “La morte di Libero rientra nel contesto in cui si sviluppò la Resistenza italiana. Il suo non fu l’unico caso di rimozione violenta dal comando di una formazione. In una situazione estremamente pericolosa e delicata di guerra e guerriglia in cui il mantenimento della clandestinità, la possibilità di gestire gli uomini e la disciplina, la centralità delle relazioni con la popolazione, la fiducia interna alle formazioni erano elementi fondamentali per la sopravvivenza dei partigiani e per il raggiungimento degli obiettivi della Resistenza, le accuse mosse contro Fedel e i dubbi che esistevano sul suo operato esercitarono un peso determinante. Era probabilmente difficile, inoltre, nel contesto organizzativo dei primi mesi del 1944, nel corso di un rastrellamento di proporzioni fino ad allora sconosciute ai partigiani del Forlivese, prendere il giusto tempo per un’inchiesta approfondita su Libero”.

20 aprile 2012. Rimini, Cineteca. Giorgio Fedel interviene alla presentazione del volume di Roberta Mira e Simona Salustri “Partigiani, popolazione e guerra sull’Appennino. L’8.a Brigata Garibaldi”

Scrive Giorgio Fedel verso la fine della sua Nota: “Tengo a dire che sono perfettamente in grado di comprendere le motivazioni degli assassini di mio padre, siano esse state politiche o, come credo, personali (il timore di essere ‘epurati’). Così come sono in grado di esprimere un giudizio tutto sommato indulgente sul loro operato (viste le categorie culturali che essi possedevano e le circostanze straordinarie che si sono trovati a vivere)”.

Giorgio Fedel era una persona intelligente, in grado di comprendere perfettamente i meccanismi a cui la guerra costringeva gli uomini. Ma il suo scopo prioritario era quello di riabilitare il padre Libero, figura con bianchi e scuri, da tante accuse infamanti lanciategli nel corso del tempo: in parte vere in parte false. Libero creò ed organizzò le prime formazioni partigiane romagnole secondo un modello che non fu quello che si affermò nei mesi successivi per volere dei comandi partigiani italiani. Libero si dichiarò sempre comunista, aveva l’amicizia di Arrigo Boldrini (il comandante “Bulow”) (1915-2008), scontò diversi anni al confino. Tabarri e Marconi erano uomini di partito, organizzatori capaci, forti di precedenti esperienze su altri campi militari. Decisionisti, autoritari, stalinisti sicuramente. Ma entrambi simboli della resistenza romagnola per quello che seppero organizzare e fare contro i tedeschi nei lunghi e terribili mesi del 1944 prima della Liberazione di Rimini (21 settembre), di Forlì (9 novembre) e di Ravenna (4 dicembre).

Copertina del volume di Giorgio Fedel “La prima resistenza armata in Italia alla luce delle fonti britanniche e tedesche”, al fondo del quale compare la Nota con il j’accuse contro Tabarri e Marconi

L’ANPI e l’Istituto Storico della Resistenza di Rimini, assieme all’Amministrazione Comunale, il 1° giugno hanno voluto ricordare, riconoscenti, in occasione del 50° anniversario della sua scomparsa (il 1° giugno 1968), Guglielmo Marconi.

L’accusa di assassinio lanciata dunque da Giorgio Fedel contro Tabarri e Marconi ci pesa e ci addolora. Ho tentato di scrivere qui sopra una sintesi di questa drammatica pagina di storia della resistenza romagnola, cercando di comprendere e di spiegare le affermazioni di ognuno. Non so se ci sono riuscito. Però mi auguro che la ricerca storica possa essere portata avanti con maggiore serenità, pur consapevole della drammaticità dell’episodio.

1 giugno 2018. Rimini, Cimitero. Commemorazione di Guglielmo Marconi in occasione del 50° della scomparsa

Mi piace ricordare in chiusura l’affermazione che fece il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a Boves nel 2003: “La Resistenza è stato il modo in cui un popolo ha conservato l’onore e il rispetto di se stesso”. Non dimentichiamolo mai, anche quando come ricercatori storici proviamo a comprendere tutti gli aspetti di una vicenda drammatica come fu la Resistenza italiana.

Paolo Zaghini

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