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Le mie Marche, due anni dopo

A due anni dal terremoto la normalità non è forse tornata del tutto, ma comunque inizia ad intravedersi, da queste parti. Una considerazione che sarebbe suonata paradossale solo qualche anno fa, considerando che spesso di normalità ne abbiamo avuta fin troppa, negli ultimi decenni. Ebbene, proprio questa mansueta normalità, che a lungo ha contraddistinto la nostra terra, improvvisamente è diventata la cosa meno scontata in assoluto, invece. È evidente come la storia si sia rimessa in moto, sebbene molti all’alba del terzo millennio ne avessero predetto la fine nel suo senso più profondo, e proprio le Marche ne siano tragicamente uno dei cuori pulsanti, microcosmo a immagine e somiglianza dei problemi scottanti del nostro tempo, dall’immigrazione al razzismo, dalla salvaguardia dello stato di diritto alla corruzione: in pochi mesi abbiamo vissuto l’omicidio di Emmanuel, il terremoto di agosto, quello di ottobre, l’emergenza neve, lo sciame sismico, il caso Pamela e quello Traini.

A due anni dal terremoto il grosso è stato messo in sicurezza, e restano aperte solo le ferite più profonde, quelle a ridosso dell’epicentro come Pescara del Tronto, ad esempio, che sono lì a ricordarci – nella loro tragedia – che mai le Marche potranno tornare ad essere esattamente quelle di prima, come forse è anche insensato che sia. Ma ce ne sono anche alcune che sono state curate ormai del tutto, di ferite. Un esempio. Vi avevo parlato del Santuario della Madonna dell’Ambro, l’anno scorso, ricordate? “Uno dei luoghi simbolo dell’entroterra fermano, inagibile dall’ottobre scorso, che non sappiamo quando potrà essere riaperto” – avevo scritto. Ebbene oggi, invece, lo sappiamo: grazie al contributo della banca Carifermo, infatti, è stato finanziato un progetto di restauro con una tecnologia all’avanguardia messa in campo dall’azienda Alessandrini, grazie anche alla Mapei. I lavori sono partiti nel febbraio 2018 e, se tutto andrà come previsto, entro dicembre di questo stesso anno dovrebbero essere ultimati.

Qualcosa è cambiato, dunque, dall’ultima volta che ho sentito l’esigenza di scrivervi del terremoto. Non ho vissuto in prima persona la dolorosa esperienza di dover lasciare la propria casa, e dunque non mi sognerei neanche di mettere bocca sui moduli abitativi, su come è stata affrontata l’emergenza, sulla macchina dei soccorsi e sulle soluzioni provvisorie. Lascio la parola ai diretti interessati. Posso raccontarvi quello che ho visto io, con i miei occhi: per quanto riguarda la mia esperienza, abitando in un paese che rientra nel cratere (pur non essendo fra i più danneggiati), posso dire che qualcosa si è mosso, e non solo in fase emergenziale: sono stati infatti finanziati diversi progetti, alcuni dei quali molto importanti, che hanno lo scopo strutturale di rendere ancora attrattivi questi luoghi.

I soldi ci sono, dunque, sia dallo Stato che dai privati. Starà a noi gestirli, e soprattutto starà a noi vigilare su chi già di questi soldi se n’è approfittato più del dovuto, ristrutturando case che avrebbero dovuto mettere a posto da tempo, spostando residenze, oppure usufruendo in modo legale di contributi semplicemente malpensati, o con altri mille sotterfugi. Sprechi che graveranno sulle spalle di noi giovani, che proprio quegli interventi andremo a pagare, già consapevoli di un futuro pensionistico che andrà sempre peggiorando con gli anni: invito dunque a segnalare ogni irregolarità, perché quei soldi potrebbero essere spesi in maniera molto più intelligente e lungimirante.

Mai come in quest’estate l’entroterra marchigiano è stato inondato da eventi ed iniziative. La più eclatante, certo, è stata la seconda edizione del Festival Risorgimarche, coronata dal concerto di Jovanotti a Matelica, al quale hanno assistito circa 70.000 persone, dopo 350 metri di dislivello e 6 km di cammino. Una splendida iniziativa che ha visto migliaia e migliaia di persone in marcia, con il sole che picchiava sulle spalle, verso le montagne ferite dal terremoto. Luoghi incantevoli, che però rischiano di rimanere disabitati per sempre, ancor più adesso. Me le ricordo le facce: ci si salutava senza conoscersi, con un sorriso d’intesa, come se tutto fosse passato, come se tutto fosse Passato. Tra una birra artigianale e un Varnelli abbiamo trovato persino il coraggio di scherzare fra di noi, di lasciare da parte la paura. Uno dei pochi momenti in cui mi sono sentito davvero parte di una comunità: un luogo dove erano gli altri, e non io, a dirmi chi sono. Ero perfettamente consapevole che, in quel momento, anche io ero un anello della “social catena” che avevo letto e riletto ne La Ginestra. Un Festival che non si sa come ma si è riusciti persino a criticare, in parte: spesso, anche nelle mansuete Marche, ci riveliamo un Paese che sa fare polemica solo quando non serve.

È un Paese che si indigna per una vignetta, il nostro, e fa del sensazionalismo il suo motore bilioso: un Paese che preferisce trovare capri espiatori piuttosto che denunciare malfattori, nella cornice di un giornalismo che antepone l’audience della domenica pomeriggio all’inchiesta quotidiana: un Paese che si concentra più sugli “angeli” di Rigopiano che sugli abusi edilizi dell’Hotel; su Ciro che salva il fratellino dal terremoto piuttosto che sui condoni di Casamicciola; sul cane eroe di Genova, piuttosto che sulle condizioni del ponte, con i media pronti a intitolare “tragedia annunciata” soltanto il giorno dopo. Ma guai, guai a dire agli italiani che quello di Amatrice è stato un séisme à l’italien!

Questi luoghi, per risorgere davvero, avranno bisogno di scelte consapevoli, sofferte, e non di una sterile indignazione. Con la generazione dei miei nonni, probabilmente, se ne andrà anche il senso del dovere, quello che ti fa rimanere senza neanche pensarci, nel luogo dove sei nato, cresciuto, e dove morirai. Occorre sin da ora un disegno d’ampio respiro, che finalmente anteponga gli investimenti sulla prevenzione alla macchina dei soccorsi. Bisogna intervenire con sgravi e incentivi nelle successioni generazionali: è quel passaggio di testimone che si rivelerà decisivo, per queste terre: dobbiamo fare in modo che, per noi nipoti, ereditare la casa dei nostri nonni sia una scelta attrattiva e conveniente, oltre che sicura. Abbiamo i mezzi per capire dove è necessario intervenire: più la diagnosi sarà puntuale, e meno l’intervento sarà costoso e invasivo. Le strumentazioni più sofisticate e all’avanguardia vengono fabbricate proprio qui in Italia, e forse è arrivato il momento di utilizzarle anche, oltre che esportarle all’estero.

Ma a volte ce ne dimentichiamo, di essere un grande Paese, e iniziamo ad allargare le braccia affidandoci alla fatalità, la madre d’ogni oltraggio all’intelletto umano. E pensare che ce l’aveva già spiegato proprio un marchigiano come Leopardi, che la natura non è né buona né cattiva, ma semplicemente non si interessa affatto alla nostra misera esistenza. Ma poi c’è da ricandidarsi alle prossime elezioni, e ognuno sembra perdere il lume della ragione: perché finanziare un piano a lungo termine, se non porta un immediato tornaconto elettorale? Perché rischiare che un mio successore benefici dei miei sforzi, sapendo che un governo, in Italia, dura poco più di un anno?

E alla fine vince sempre l’attaccamento alla poltrona: si torna a fare spallucce, e a tirare avanti a pane fatalità e beneficenza. Ben venga la beneficenza, per carità: non dobbiamo vergognarci di essere un popolo generoso, ci mancherebbe. Ma spesso, in Italia, la generosità assomiglia un po’ troppo alla rassegnazione: una bandiera bianca di fronte al fatto che il nostro Paese non cambierà mai. E invece potremmo, e dovremmo, comportarci da homo sapiens quali siamo, come giustamente ci ha ricordato un illustre italiano come Renzo Piano – le cui parole in Senato, però, pronunciate già da quasi due anni, rimangono ad oggi ancora inascoltate.

Edoardo Bassetti

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