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La vernice è lavabile, il razzismo un po’ meno

Le statue si erigono e le statue si abbattono, ci insegna la storia. Nulla di nuovo dunque: è sempre stato così e continuerà ad esserlo. Diventano semmai un problema, come ha spiegato magistralmente George Mosse, quando da semplici statue si trasformano in strumento del mito: ovvero un racconto della storia che si presenta come naturale quando invece è costruito, una narrazione che tende per la sua natura im-mediata ad essere accettata acriticamente, come magari sarà capitato proprio a qualche milanese che, facendo pausa mentre correva, si è fermato mezzo sudato di fronte alla statua di Indro Montanelli.

Il mito, scrive Roland Barthes, è un linguaggio di secondo livello di cui conosciamo soltanto l’esito finale. Esplicitare il significante e il significato di questo doppio sistema semiologico significa dunque disinnescare l’effetto del mito, cioè svelare ciò che la statua vorrebbe nascondere. Tuttavia, il mito inteso come ri-significazione non è negativo in sé, è infatti uno strumento neutrale, formidabile veicolo di processi culturali: un cavallo di Troia che, attraverso una narrazione efficace (e talvolta anche artisticamente piacevole), riesce a insinuarsi in territori ancora minati a livello politico e sociale. Se ci pensiamo un attimo, l’immaginario che dà un nome alle singole esperienze del nostro quotidiano, e spesso anche le più belle, è costituito in fondo proprio da un insieme di miti, quelli che scegliamo criticamente ma anche quelli che accettiamo acriticamente.

Fino a pochi giorni fa, probabilmente, fermando una persona per strada, alla domanda “chi è Indro Montanelli?” avrebbe risposto “uno dei più grandi giornalisti d’Italia”. E basta. E potrebbe essere anche vero – non è questo il punto dell’articolo. Il problema nasce dal fatto che, fino a pochi giorni fa, appunto, il grande pubblico avrebbe percepito questa risposta come esaustiva, quando è invece la narrazione parziale e mitica che è sopravvissuta al suo stesso oggetto, specie dopo l’attentato delle Brigate Rosse del 1977.

Il problema, infatti, non nasce dal fatto che nel 2002 il sindaco di Milano Gabriele Albertini abbia voluto intitolare i giardini pubblici di Porta Venezia (ovvero dove avvenne l’agguato) alla memoria di Indro Montanelli; e neanche che abbia voluto erigere una statua in sua memoria. Il problema nasce invece quando tutto ciò diviene uno strumento del mito, una sorta di “mito dei caduti” (cfr. Mosse) che lo presenta oggi ai nostri occhi come “un eroe della cultura italiana”, mistificando qualsiasi altro aspetto. Anche un grande giornalista come Walter Tobagi, ad esempio, fu assassinato dai brigatisti, ma provate oggi a fermare qualcuno per strada e chiedetegli chi sia: nessuno saprà rispondervi. Ecco cos’è il mito.

Gli stessi ragazzi del collettivo che hanno imbrattato la statua, come hanno ribadito loro stessi in un’intervista a La Stampa, non vogliono che il monumento venga rimosso; vogliono invece che il loro gesto provocatorio sia l’occasione per aprire un dibattito serio sul razzismo, il colonialismo e la mentalità del Novecento italiano, troppo spesso sacrificato (specie nella scuola dell’obbligo) a favore del mito (un altro) degli italiani come “brava gente”. Di questo racconto, senza dubbio, Montanelli faceva parte, non solo negli anni Trenta ma anche (e soprattutto) quando ha poi continuato a rivendicare il suo operato fino agli anni Duemila, ed è giusto che lo sappiano anche i non addetti ai lavori: in tal senso, il contributo demistificatorio dei ragazzi del collettivo è stato sicuramente più utile per la cultura italiana di quei sedicenti opinionisti che, per anni e anni, si sono arricchiti sbraitando (in questi giorni anche riguardo Montanelli) nei vari talk show televisivi.

Lasciamo da parte i vari Churchill, Colston ecc. e concentriamoci sulle pagine più buie della nostra storia, leggendo ad esempio saggi come Italiani, brava gente? di Del Boca, e adottando sin dalla scuola primaria una prospettiva che sia realmente postcoloniale e di pari opportunità. Creiamo insomma le premesse per una futura società dove, ad esempio, uno dei giornalisti più influenti del panorama italiano (scoperto proprio da Montanelli) come Travaglio non arrivi ad affermare: “I matrimoni misti fra italiani e donne indigene erano esattamente il contrario del razzismo. Il comportamento di Montanelli era esattamente il contrario del razzismo, perché un razzista con una donna di colore non ci prende nemmeno il caffè figuriamoci sposarla”.

Perché allora è proprio vero, la vernice è lavabile ma il razzismo un po’ meno.

Edoardo Bassetti

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