Il 2021 che inzia oggi è l’Anno Dantesco, in cui ricorre il settimo centenario della morte del Sommo Poeta avvenuta a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Angelo Chiaretti, Presidente del Centro Studi Danteschi “S. Gregorio in Conca”, ha pensato bene di aprire le celebrazioni con uno scritto per sottolineare la “romagnolità del Poeta fiorentino che riposa (non casualmente) a Ravenna”.
Il discorso circa i rapporti fra Dante e la Romagna si fonda su un’espressione precisa, ma sottovalutata dai commentatori in questi 700 anni), che egli sottolinea quando invia l’Epistola a Cangrande della Scala, dedicandogli la terza cantica della Commedia: EGO SUM FLORENTINUS NATIONE NON MORIBUS!
L’affermazione ha dell’incredibile poiché significa: “Io sono nato a Firenze ma i miei costumi, i miei modi non sono fiorentini”!
Dunque, volendo chiarire quali fossero quei mores di cui Dante si vantava, approdiamo incredibilmente a Roma, poiché la genealogia della sua famiglia proviene direttamente dalla Città Eterna. Ne abbiamo un riscontro immediato proprio da Brunetto Latini, che in veste di magister insegna al giovane Dante come in Firenze, rifondata dai Romani dopo le distruzioni barbariche, solo la pianta gentile (=Dante) conserva integra nel sangue l’antica virtù dei Patres, in mezzo al letame di una città ormai dissoluta e corrotta a causa dei forenses provenienti dalle colline.
Per capire ciò, occorre ascoltare quanto spiegato a Dante dal nobile suo trisavolo Cacciaguida, che nell’esporre le proprie vicende esistenziali e genealogiche usa un’espressione molto chiara: “Moronto fu mio frate ed Eliseo. Mia donna venne a me di Val di Pado e quindi il sopranome tuo si feo”, il che significa: Alighiera, moglie ferrarese di Cacciaguida, impose il suo nome alla loro discendenza, dichiarando che gli Alighieri discendono dalla famiglia degli Elisei.
Giunti a questo punto il gioco è fatto, poiché veniamo a sapere dal Boccaccio che gli Elisei discesero a loro volta dai Frangipani (quando da Roma si trasferirono a Firenze), i quali conducono genealogicamente all’antica e romana Gens Anicia. Agli Anici, si badi bene, appartennero santi, imperatori, filosofi e personaggi importanti nel cosmo dantesco, fra cui Olibrio, imperatore romano d’occidente, il meraviglioso S.Ambrogio, S. Gregorio Magno papa, S. Benedetto da Norcia, il grande Severino Boezio, l’incredibile Jacopa dei Sette Soli, protettrice romana di S. Francesco d’Assisi e il grande Giustiniano (Flavius Anicius Julianus Justinianus), che Dante celebra nel canto VI del Paradiso per aver inteso come una vera e propria missione divina la restaurazione dell’Impero.
Concludendo: abbiamo dimostrato che Dante non si ritiene di costumi fiorentini e si riconosce, invece, negli antichi mores romani. Per questo preciso motivo, dopo tanto girovagare, approda in Romagna che sceglie non quale un ultimo rifugio (secondo una celebre affermazione del dantista Corrado Ricci) bensì come la patria delle origini, la casa a cui ritornare, poiché nel suo tempo, la vera Roma era rappresentata da Ravenna, capitale italiana dell’Impero Romano d’Oriente, e quel che restava delle legioni imperiali compariva nell’Aquila polentana. Non a caso, dunque, Dante nel Convivio chiama Romanìa (piccola Roma) le nostre terre, cogliendo in pieno il senso anche etimologico del legame fra Romagna e Roma e nella romana Pineta di Ravenna ambienta il Paradiso Terrestre, in cui incontra la bella donna Matelda, che coglie fiori gialli e rossi: i colori dello stemma dei Da Polenta e che ancora oggi sono i colori delle città di Ravenna e di Roma.
Non si dimentichi infine, quanto sempre sostenuto da Giovanni Pascoli (che di cose dantesche si intendeva), secondo cui l’intera Commedia nasce a Ravenna, e non è dunque un caso che le prime anime con cui Dante dialoga provengano dalla Romagna: Paolo de’ Malatesti da Rimini e Francesca de’ Da Polenta da Ravenna: ogni edificio è significativo per la prima pietra che si mette a dimora!
Angelo Chiaretti
Presidente del Centro Studi Danteschi “S. Gregorio in Conca”